Chissà cosa avrà pensato il papa, ieri pomeriggio, nel trovarsi di fronte
a tremila e passa rappresentanti del mondo politico e parlamentare ansiosi
di festeggiare, alla Sua augusta presenza, il “Giubileo del politico”.
Avrà pensato, probabilmente, che non se ne poteva più e che anche
se questo anno santo ha rappresentato – a detta di tutti – un grande
successo, nonché il degno coronamento del Suo pontificato, è una bella
fortuna che stia volgendo alla conclusione e che di categorie socioprofessionali
da ricevere, laudato Deo, ne restino soltanto tre o quattro. Si sarà
chiesto, anche, che cos’altro gli toccherà nella prossime settimane, visto
che per il Giubileo degli sportivi è stato costretto a sorbirsi una noiosissima
(finta) partita di calcio e, per quello dei politici, a presenziare, sia
pur solo in parte, a una altrettanto noiosa (e altrettanto finta) assemblea
parlamentare. La prossima volta toccherà, se non andiamo errati,
alle forze di polizia: chissà se quel povero vecchio non sarà costretto
a sorbirsi, per motivi di protocollo, un falso scontro a fuoco o un arresto
simulato, anche se in questo ultimo caso la Chiesa potrebbe, per amor di
realismo, offrire, per la parte dell’arrestato, la partecipazione straordinaria
del Cardinale Giordano.
Ma forse i Suoi pensieri saranno stati di un
tono alquanto più compiaciuto. Avrà riflettuto, da uomo di cultura
qual è, sul fatto che quell’incontro, in definitiva, poneva fine, ancorché
nessuno abbia sentito il bisogno di farlo notare, a una lunga, lunghissima
disputa, quella della Chiesa contro il sistema rappresentativo parlamentare,
e che il bilancio – tutto sommato – non poteva considerarsi negativo
per l’organizzazione alla cui testa lui si trovava per mandato dello Spirito
Santo. Un tempo la Chiesa, incarnazione storica del principio di
gerarchia, disprezzava e temeva il parlamentarismo, che, d’altronde, era
nato e si sviluppava in dichiarata opposizione ai suoi principi e ai suoi
interessi. I teorici dell‘assolutismo clericale, i Bossuet, i Lemaistre,
i Gemelli, hanno sempre deriso le teorie di chi voleva che l’autorità
promanasse dal basso e risedesse, in ultima analisi, in quel “popolo”
che l’episcopato ha considerato fin dalle origini un soggetto passivo
di indottrinamento, incapace di acquisire valori che non gli fossero proposti
da un’Autorità debitamente accreditata. Ancora ai tempi di Pio XI,
che non ha regnato nel Medioevo remoto, non sono mancati i teorici che,
per giustificare la firma di un Concordato con Mussolini, spiegavano con
tono di sufficienza come la Chiesa non potesse non preferire, per sua natura,
di stipulare i suoi accordi con quei governi che non avessero il bisogno
di affrontare i rischi di una ratifica parlamentare.
Oggi, certo, questa polemica non ha ragione
di essere. I rappresentanti del popolo si affollano al bacio della
Divina Pantofola e non mostrano in alcun modo di avere una qualche considerazione
dell’autonomia del loro ruolo e dell’impegno che laicamente li lega ai
propri elettori. Sono lì, ansiosi come cagnolini quando il padrone
distribuisce i biscotti, tutti intenti a concentrare quante più banalità
possono nei tre minuti concessigli dal protocollo e a sorbirsi, in cambio,
le solite prediche pontificie sui diritti umani, che sono una gran bella
cosa, ma non vanno intesi in senso individualistico (e chissà in quale
senso, allora, dovrebbero essere intesi, visto che gli individui, in definitiva,
ne sono i soggetti) e a prendere buona nota delle raccomandazioni con cui
li si esorta a vietare a tutti per legge quei comportamenti che la Chiesa,
in base ai propri principi, considera disdicevoli. Sia che parlino
a nome del Comitato di Accoglienza, come Andreotti, del Comitato dell’Anno
Santo, come Rutelli, dell’Internazionale Democristiana come Casini o dell’Internazionale
Socialista come Veltroni, non sentono in nessun modo il bisogno di distinguere
l’autorevolezza che è sempre opportuno riconoscere al Pontefice dall’Autorità
che costui concretamente rivendica al di fuori di quelle garanzie democratiche
alla cui difesa dovrebbero essere istituzionalmente tenuti. Partecipano
a una finzione, perché è ovvio che quella loro assemblea non può far altro
che simulare la logica delle assise parlamentari, ma lo fanno con tanto
convincimento da giustificare la perplessità di chi si chiede se anche
nei rispettivi Parlamenti il dibattito sia tanto predefinito e le conclusioni
tanto scontate. Di un parlamentarismo del genere, che non può rappresentare
altro che se stesso, non c’è Autorità che debba o possa avere paura.
Perché se il parlamentarismo non serve a limitare,
in nome della Rappresentanza, i poteri dell’Autorità, a cosa credete che
possa servire?
C. Oliva, 05.11.’00