Un’altra vittoria da registrare

La caccia | Trasmessa il: 11/05/2000




Chissà cosa avrà pensato il papa, ieri pomeriggio, nel trovarsi di fronte a tremila e passa rappresentanti del mondo politico e parlamentare ansiosi di festeggiare, alla Sua augusta presenza, il “Giubileo del politico”.  Avrà pensato, probabilmente, che non se ne poteva più e che anche se questo anno santo ha rappresentato – a detta di tutti – un grande successo, nonché il degno coronamento del Suo pontificato, è una bella fortuna che stia volgendo alla conclusione e che di categorie socioprofessionali da ricevere, laudato Deo, ne restino soltanto tre o quattro.  Si sarà chiesto, anche, che cos’altro gli toccherà nella prossime settimane, visto che per il Giubileo degli sportivi è stato costretto a sorbirsi una noiosissima (finta) partita di calcio e, per quello dei politici, a presenziare, sia pur solo in parte, a una altrettanto noiosa (e altrettanto finta) assemblea parlamentare.  La prossima volta toccherà, se non andiamo errati, alle forze di polizia: chissà se quel povero vecchio non sarà costretto a sorbirsi, per motivi di protocollo, un falso scontro a fuoco o un arresto simulato, anche se in questo ultimo caso la Chiesa potrebbe, per amor di realismo, offrire, per la parte dell’arrestato, la partecipazione straordinaria del Cardinale Giordano.

       Ma forse i Suoi pensieri saranno stati di un tono alquanto più compiaciuto.  Avrà riflettuto, da uomo di cultura qual è, sul fatto che quell’incontro, in definitiva, poneva fine, ancorché nessuno abbia sentito il bisogno di farlo notare, a una lunga, lunghissima disputa, quella della Chiesa contro il sistema rappresentativo parlamentare, e che il bilancio – tutto sommato – non poteva considerarsi negativo per l’organizzazione alla cui testa lui si trovava per mandato dello Spirito Santo.  Un tempo la Chiesa, incarnazione storica del principio di gerarchia, disprezzava e temeva il parlamentarismo, che, d’altronde, era nato e si sviluppava in dichiarata opposizione ai suoi principi e ai suoi interessi.  I teorici dell‘assolutismo clericale, i Bossuet, i Lemaistre, i Gemelli, hanno sempre deriso le teorie di chi voleva che l’autorità promanasse dal basso e risedesse, in ultima analisi, in quel “popolo” che l’episcopato ha considerato fin dalle origini un soggetto passivo di indottrinamento, incapace di acquisire valori che non gli fossero proposti da un’Autorità debitamente accreditata.  Ancora ai tempi di Pio XI, che non ha regnato nel Medioevo remoto, non sono mancati i teorici che, per giustificare la firma di un Concordato con Mussolini, spiegavano con tono di sufficienza come la Chiesa non potesse non preferire, per sua natura, di stipulare i suoi accordi con quei governi che non avessero il bisogno di affrontare i rischi di una ratifica parlamentare.

       Oggi, certo, questa polemica non ha ragione di essere.  I rappresentanti del popolo si affollano al bacio della Divina Pantofola e non mostrano in alcun modo di avere una qualche considerazione dell’autonomia del loro ruolo e dell’impegno che laicamente li lega ai propri elettori.  Sono lì, ansiosi come cagnolini quando il padrone distribuisce i biscotti, tutti intenti a concentrare quante più banalità possono nei tre minuti concessigli dal protocollo e a sorbirsi, in cambio, le solite prediche pontificie sui diritti umani, che sono una gran bella cosa, ma non vanno intesi in senso individualistico (e chissà in quale senso, allora, dovrebbero essere intesi, visto che gli individui, in definitiva, ne sono i soggetti) e a prendere buona nota delle raccomandazioni con cui li si esorta a vietare a tutti per legge quei comportamenti che la Chiesa, in base ai propri principi, considera disdicevoli.   Sia che parlino a nome del Comitato di Accoglienza, come Andreotti, del Comitato dell’Anno Santo, come Rutelli, dell’Internazionale Democristiana come Casini o dell’Internazionale Socialista come Veltroni, non sentono in nessun modo il bisogno di distinguere l’autorevolezza che è sempre opportuno riconoscere al Pontefice dall’Autorità che costui concretamente rivendica al di fuori di quelle garanzie democratiche alla cui difesa dovrebbero essere istituzionalmente tenuti.  Partecipano a una finzione, perché è ovvio che quella loro assemblea non può far altro che simulare la logica delle assise parlamentari, ma lo fanno con tanto convincimento da giustificare la perplessità di chi si chiede se anche nei rispettivi Parlamenti il dibattito sia tanto predefinito e le conclusioni tanto scontate.  Di un parlamentarismo del genere, che non può rappresentare altro che se stesso, non c’è Autorità che debba o possa avere paura.

       Perché se il parlamentarismo non serve a limitare, in nome della Rappresentanza, i poteri dell’Autorità, a cosa credete che possa servire?


C. Oliva, 05.11.’00