Quando, nel 1778, doveva aprirsi in Milano il Regio Ducale
Teatro alla Scala, gli impresari decisero di chiedere un’opera, per la
serata inaugurale, al celebre Christoph Willibald Gluck. Era una
scelta, a modo suo, coraggiosa, perché costui, responsabile di una discussa
“riforma” del melodramma che aveva spazzato via buona parte delle bellurie
belcantistiche di moda a quell’epoca, era un autore, come dire, di avanguardia,
e in quanto tale non proprio il più popolare sulla scena milanese e italiana:
dimostrava, comunque, la capacità di non subordinare ai soli interessi
del botteghino quel senso della dignità culturale necessario, allora come
oggi, a chi volesse dirigere un grande teatro. Ma Gluck era impegnato
con l’Opéra di Parigi: ringraziò per “l’onorevole e graditissimo invito”,
ma dovette, ahimè, declinare. E, visto che i tempi stringevano, i
responsabili si videro costretti a ripiegare su un giovane autore di belle
speranze, quell’Antonio Salieri che, in seguito, avrebbe saputo trarre
profitto dalla lezione gluckiana, ma nel 1778 doveva ancora farsi le ossa
e confezionò, infatti, L’Europa riconosciuta, un’opera in cui si riproponevano
senza soverchia ricerca di originalità tutte le convenzioni e le consuetudini
in uso. Fu un successo, ma non tale da spingere qualcuno, nei duecentoventicinque
anni successivi, a riproporre quel dramma a un pubblico qualsivoglia, il
che, per chiunque abbia qualche nozione di storia del teatro musicale,
qualcosa dovrebbe significare. Nemmeno l’ambigua popolarità che
l’autore si sarebbe conquistato nell’Ottocento con l’accusa di avere
avvelenato Mozart, una calunnia che risale – in sostanza – a un atto
unico di Pukin del 1822 e della quale non esistono prove documentarie
d’epoca, ha comportato un recupero della sua produzione e infatti quella
di martedì dovrebbe essere, salvo errori, la seconda messa in scena in
assoluto dell’Europa riconosciuta.
La colpa, va detto,
non è tutta di Salieri. Il fatto è che quelle convenzioni, allora
trionfanti, erano destinate a entrare in crisi in tempi straordinariamente
brevi. La trasformazione del gusto musicale alla fine del ‘700 (una
trasformazione in cui tanto Gluck quanto Mozart c’entrano per qualcosa)
avrebbe estromesso senza appello dal repertorio tutta la produzione operistica
“seria” dei secoli precedenti. E visto che del gusto nuovo siamo
eredi, alla lontana, anche noi, la condanna si è protratta fino a oggi.
In sostanza, per chi non sia un musicologo di professione o non abbia
un orecchio particolarmente educato, opere come quella con cui sta per
essere reinaugurata la Scala dopo il “restauro” suonano, sia lecito dirlo,
inevitabilmente tediose.
Non che la prima di
dopodomani, dio scampi, sia intesa per un pubblico di musicologi
o di raffinati intenditori. Intanto, non se ne troverebbero, a cercarli
in tutta la città, neanche quanti bastano per riempire le prime tre o quattro
file di poltrone. E poi sappiamo tutti che all’opera, oggi, non
si va per sentire la musica. Non ci sarebbe stato bisogno, allo scopo,
di convocare in teatro le massime autorità dello stato (salvo quelle che,
astutamente, sono riuscite a trovarsi un impegno concomitante in Cina),
per non dire del presidente della Confederazione svizzera, del Granduca
e della Granduchessa del Lussemburgo, del Re e della Regina di Norvegia
e degli altri pezzi grossi che gremiranno palchi e poltrone (pezzi grossi,
si badi, ma non grossissimi: gente che, una volta ricevuto l’invito, non
ha potuto, per un motivo o per l’altro, sottrarsi, come hanno fatto i
veri big, i Bush, i Blair e i Putin che, pur invitati, se la sono cavata
mandando i rispettivi ambasciatori). Sarà una cerimonia, quella di
Sant’Ambrogio, dal tono eminentemente autoglorificativo, in cui poca o
nulla importanza avrà la musica e molta, moltissima la celebrazione.
I convenuti, a partire dal presidente Berlusconi, che ama tanto poco
il teatro lirico da averlo fatto scrivere sulla sua biografia illustrata,
per finire con il principe Emanuele Filiberto, sulle cui competenze intellettuali
chiunque può giudicare, saranno chiamati ad attestare l’andata a buon
fine del progetto “Nuova Scala”, una impresa assai dubbia sul piano culturale
e degna forse più di un Attila che di quella imperatrice Maria Teresa con
cui il sindaco in carica ha trovato, modestamente, modo di paragonarsi,
ma dai sicuri risvolti mediatici e autoreferenziali, che sono poi quelli
che contano di questi tempi. Proprio per sottolineare le pretese
in tal senso, d’altronde, è stata riesumata l’opera del vecchio Salieri,
stabilendo un artificioso parallelismo tra l’inaugurazione del 1778 e
quella di oggi, senza rendersi conto che una cosa è mandare in scena una
novità, come si fece comunque allora, e un’altra recuperare un documento
di archivio, per giunta noioso.
Quanti parteciperanno all’evento, in ogni caso, ne ricaveranno
quel tanto di esposizione alle telecamere sufficiente per compensare la
noia e, in ogni caso, potranno consolarsi con il buffet. A noi, che
senza essere necessariamente degli esperti, amiamo comunque il teatro musicale,
non resterà che rimpiangere questi tre anni di Scala chiusa, in cui chiunque,
senza difficoltà o complicazioni maggiori di quelle rappresentata da un
trasferimento in periferia, poteva accedere al Teatro degli Arcimboldi
e godersi l’eterna magia dell’opera a prezzi abbordabili e in un ambiente
confortevole e funzionale, senza doverla condividere con quanti considerano
la musica soltanto l’appendice inevitabile di un rito mondano o di una
parata politica, gente che fino alla Bicocca non si spingeva di certo.
Adesso che tutto l’ambaradàn sta per essere ritrasferito in centro,
noi la Scala, purtroppo, potremo sognarcela. Pazienza: tanto ne
resta in piedi così poco…
05.12.’04