Una ricorrenza ambigua, ma non troppo

La caccia | Trasmessa il: 04/24/2005



Quando, un paio di ere geologiche fa, muovevo i primi passi sul terreno minato della politica, la ricorrenza del 25 aprile non era, almeno nel mio giro, tra le più popolari.  Non che frequentassi, dio ne scampi, ambienti nostalgici o qualunquisti, ma era tutta gente cui, in un modo o nell’altro, piaceva scherzare e se la ridevano di gusto su Sua Eccellenza che, salito sul palco e inchinatosi a Sua Eminenza, esaltava i valori della Resistenza (era questo, in realtà, un epigramma di Ennio Flaiano: si intitolava, se ben ricordo, “Tutto da rifare”) o cantavano quella canzone su un anonimo ex resistente, che, avvezzo negli anni della lotta a portare al collo un fazzoletto rosso, viene convinto, per la ricorrenza, a mettersene uno tricolore e già la cosa gli secca, ma quando vede tra i celebranti non soltanto l’allora ministro Andreotti, ma anche il suo principale, quello che l’ha da poco licenziato, “uno schifoso liberale anche lui tricolorato”, del bianco e del verde si sbarazza subito e ritorna  al rosso originario, a costo di farsi dare del “cinese” e farsi chiamare “disfattista” e se non capite il perché dell’ultimo aggettivo vuol dire che siete troppo giovani per ricordare gli stereotipi verbali in uso nella sinistra fin verso la metà degli anni ’60.  Con quei termini, peraltro, fu immediatamente bollato l’autore dei versi, che era Ivan Della Mea, a dimostrazione del fatto che i tempi stavano, sì, cambiando, ma solo fino a un certo punto.
        Il guaio, ammettiamolo pure, è che la festa del 25 aprile ha sempre avuto un carattere leggermente ambiguo, collocata com’è a mezza via tra la rievocazione di una lotta popolare largamente spontanea e il momento istituzionale e celebratorio.  Che è poi, in fondo, la stessa ambiguità della nostra Repubblica, della quale è facile dire che nasce dalla Resistenza, ma non è difficile individuare i tratti e le caratteristiche che con la Resistenza hanno davvero poco a che fare.  E per essere franchi del tutto, va detto che la stessa lotta partigiana non è stata esente da un minimo di ambiguità, giocata come fu su una sottintesa duplicità di programmi, in cui l’obiettivo della liberazione nazionale e della rigenerazione democratica poteva (o non poteva, a seconda degli interlocutori) sovrapporsi a un sogno di palingenesi sociale che avrebbe richiesto altri e più incisivi provvedimenti.  Insomma, tutto dipende, come sempre, da quello che nell’offerta ideologica si vuole prendere o rifiutare e, con tutto il rispetto dovuto al Presidente Ciampi, non è detto che la sua presenza – per non dire di quella di altre, meno rispettabili, figure istituzionali – rappresenti davvero un valore aggiunto alle celebrazioni di domani.  Non credo siano in pochissimi quelli che preferirebbero che il Presidente, per una volta, se ne stesse a casa e in piazza, magari, si facesse rappresentare dalla piccola Yuki.
        D’altra parte… d’altra parte la vittoria sul fascismo è cosa che va ricordata e su cui è lecito far festa.   Non perché il fascismo, come si è costituito storicamente, con la sua ideologia da quattro soldi e le sue lugubri ritualità, rappresenti ancora un pericolo.  Quella cosa lì – lo sappiamo  – è morta e sepolta, i suoi epigoni se ne sono sbarazzati come di un peso molesto e persino la nipote del duce, nonostante i tristi figuri con cui politicamente si accompagna, quando vaneggia sulla cara figura del nonno fa più tenerezza che paura.   Ma il fatto è che il fascismo come programma politico non può essere ridotto ai gagliardetti e ai saluti romani e nemmeno alla organizzazione gerarchica e autoritaria dello stato, al delirio nazionalista, alle tentazioni coloniali e alla vergogna del razzismo.  Il fascismo è un progetto generale di interferenza nella dialettica democratica, concepito e realizzato al fine specifico di assicurare il predominio di classe, di garantire a chi lo detiene il pacifico godimento del capitale e di fare in modo che i ceti subalterni stiano al loro posto e i lavoratori altro non facciano, appunto, che lavorare.  In quanto tale, ha sempre dimostrato una straordinaria capacità di adattamento e mimetizzazione.  È un fenomeno politico proteiforme, che non soffre di remore verbali e può benissimo, se lo richiedono le circostanze, simulare senza vergogna il linguaggio della democrazia.   In effetti, oggi si presenta indifferentemente nei panni di chi esalta l’unità nazionale e in quelli di chi vuole a ogni costo la devolution, riesce a farsi alfiere al tempo stesso del pietismo cattolico e dell’edonismo reaganiano,  esalta la tradizione e si inebria di ostentata modernità.  Alla fine, però, nonostante questi panni sguaiati e variopinti che neanche la livrea di Arlecchino, nella volontà espressa di negare i valori della  conoscenza e della decisione in comune finisce sempre per rivelare, sotto il belletto, la sua faccia eternamente feroce.
        Ora, non vorrei suonare retorico affermando che contro questo fascismo, oggi come ieri, siamo chiamati a combattere.  Ma è poco ma sicuro che è contro di noi che questo fascismo, ieri come oggi, combatte.  E il 25 aprile del 1945 rappresenta comunque un momento in cui il suo progetto storico ha subito, momentaneamente, uno scacco.  Basta vedere come questa celebrazione continui a far girare le palle, dopo sessant’anni, ai nostri governanti, che pure, quanto a faccia di bronzo e a capacità di far finta di niente, sono praticamente imbattibili.
Ed è questo, in definitiva, il miglior motivo per continuare a festeggiarla noi.

24.04.’05