Una questione di principio

La caccia | Trasmessa il: 03/11/2012


Una questione di principio

    Devo confessarvi, in sommessa e partecipe confidenza, che gli argomenti del movimento No Tav non sono tra quelli che toccano in me delle corde particolarmente sensibili. Sarà, suppongo, per via dell'età: in fondo sono nato prima della metà del secolo scorso, più vicino all'Ottocento, quindi, che al Duemila, e qualcosa dell'ideologia ottocentesca mi deve esser restato appiccicato addosso, sapete, quella concezione vagamente ingegneristica del progresso per cui le grandi opere di viabilità vanno intese come sfide alla natura ostile, e i ponti, le strade ferrate, le gallerie e compagnia bella sono soprattutto qualcosa che unisce gli uomini, accorciando le distanze che li separano, rendendo possibili gli incontri e gli scambi e ponendo così i presupposti della fraternità universale. È un po' la logica dell'Inno a Satana del Carducci, nelle cui strofette finali il treno veniva assunto a simbolo del trionfo della libertà di pensiero, o, se questo testo vi sembra un po' troppo compromettente, quella del Ballo Excelsior, che non per niente è stato composto per celebrare l'apertura del traforo del Frejus. Da questo punto di vista, devo ammettere che persino l'idea del ponte sullo stretto di Messina non mi è mai sembrata tanto esecrabile quanto certuni la dipingevano. Se l'umanità non avesse mai imparato a superare i fiumi, gli stretti e le montagne, probabilmente sarebbe ancora confinata in quel pezzettino di Africa Australe in cui sono per la prima volta comparsi i nostri antenati.
    Poi, naturalmente, si ragiona caso per caso. Se qualcuno degno di fede ti viene a spiegare che il tal ponte, oltre a costare uno sproposito, sarebbe a forte rischio sismico, o che la tal linea ferroviaria potrebbe rivelarsi letale per l'ambiente e comporta comunque uno squilibrio costi ricavi da brivido, e se quelle argomentazioni non sembrano manifestamente infondate, sarebbe sciocco rifiutarsi di prenderle in considerazione, rispondendo, magari, che la decisione ormai è stata presa e bisogna andare avanti se no chissà cosa dirà l'Europa. I No Tav, notoriamente, rifiutano l'accusa di voler difendere soltanto i propri particolari interessi di rustici valligiani, e sostengono che le opere che contestano sarebbero pericolose, inutili e antieconomiche sul piano generale: si può dubitare della loro buona fede, volendo, ma questo non autorizza nessuno a ignorarne le tesi a priori. In fondo, puoi essere arcisicuro dei tuoi calcoli e delle tue previsioni, ma nei calcoli meglio fatti può sempre annidarsi qualche imprevedibile defaillance e i dati su cui si fondano le previsioni possono essere irrimediabilmente arretrati, per cui una controllatina in più non sarà mai di troppo. Finché i lavori sono allo stato di progetto è sempre possibile cambiarne l'orientamento o sospenderli: una volta gettati i piloni o cominciati gli scavi rimediare a una impostazione sbagliata sarebbe molto più complicato.
    Se a queste obiezioni di puro buonsenso si è deciso di non rispondere affatto, dichiarandosi aperti al dialogo, figuriamoci, ma in nulla intenzionati a cambiare idea, (che è una contraddizione, ma evidentemente non importa) e facendo crescere la tensione fino al limite dello scontro frontale, vuol dire che c'è sotto qualcosa. Se l'intera classe politica, destra, sinistra e centro, ha scelto la via dello scontro frontale, se lo stesso Presidente della Repubblica ha rinunciato alla sua immagine tradizionale di mediatore benevolo e amato padre della patria comune, per schierarsi risoluto da una delle due parti, a rischio di rievocare, in una Torino militarizzata in occasione della sua recente visita, gli infausti ricordi della zona rossa di Genova, non possiamo far finta di niente. Tutto questo può essere interpretato solo in un senso: quello per cui il rigore e la fermezza tanto autorevolmente invocati vanno intesi soprattutto come una questione di principio.
    L'ipotesi, in altre parole, è che alle istituzioni, a chi le rappresenta e alle forze politiche che le sostengono importi, in definitiva, assai poco dell'alta velocità, della valle, del traforo e di tutto il resto: importa soltanto invece moltissimo che sia chiaro e assodato il loro esclusivo diritto a decidere in merito. Consultare la gente, ascoltare le opinioni dei cittadini, considerare i loro argomenti (magari soltanto per rifiutarli) non è cosa cui questi fautori del dialogo a una sola direzione siano disposti. Sarebbe un precedente troppo pericoloso.
    Per questo il governo tecnico (spalleggiato da suo padrino del Quirinale) ha assunto sul problema della Val di Susa la stessa identica posizione presa a suo tempo dai gli esecutivi di centrodestra e di centrosinistra. E per questo agli oppositori della Tav è stato conferito sul campo l'epiteto di “anarchici”, rafforzato, come è ormai d'uso, dall'aggettivo “insurrezionalisti”, come se in Val di Susa o altrove ci fosse stata (o ci fosse ancora) l'eventualità di una insurrezione anarchica. Ora, è vero che l'evocazione dello spirito di Bresci e di Ravachol è sempre stato un esercizio caro alle questure, ma, in questo caso, sembra francamente un po' troppo, visto che in quella valle l'unico rischio era quello che fosse messa in discussione l'arroganza del potere e, quanto a questo, ormai, il guaio è stato fatto e non può tornare indietro nessuno. Come nessuno, d'altronde, può tornare indietro dalla situazione bloccata che si è venuta a creare e chissà come riusciremo a tirarci fuori da questo immane pasticcio, salvando al tempo stesso il progresso, il Ballo Excelsior e la libertà di pensiero. E dire che sarebbe bastato un po' di buon senso...
11.03.'12