Mercoledì scorso, la piccola Margherita
ha avuto, per la seconda e ultima volta in vita sua, l’onore dei titoli
in prima pagina sui giornali. Lo ha avuto, poveretta, perché è morta,
come, un mese prima, aveva goduto di quel dubbio privilegio semplicemente
perché era nata. Come certamente ricorderete, Margherita era la primogenita,
se così si può dire, degli otto “gemellini” nati prematuramente a quella
signora che si era sottoposta, sotto la guida di non saprei dirvi quale
luminare, a una cura di fecondità. Nella sua breve vita, che suppongo
non sia stata immune da sofferenze, non ha fatto nulla che giustificasse
l’interesse dei giornali e di chi li legge. Ma sono bastate le condizioni
della sua nascita per farne, per poche settimane, una protagonista della
cronaca.
Nasce
l’uomo a fatica, ci ricordava, parafrasando Lucrezio, il Leopardi, ed
è rischio di morte il nascimento. Ahimè: che un bambino, soprattutto
se prematuro e nato da un parto plurimo, sia a rischio di vita non è una
novità per nessuno. È una delle possibilità di questa nostra vita
precaria. Una volta, fino a pochi decenni or sono, era una possibilità
tanto frequente da ricadere praticamente nella norma. Si sopravviveva,
più che altro, per caso e l’incidenza della mortalità perinatale, nelle
statistiche, abbassava la speranza di vita a un livello che oggi ci sembrerebbe
assurdo: una quarantina d’anni, non di più, nell’Europa del primo ‘900,
molto meno altrove. Poi, il progresso delle condizioni igienico sanitarie
– che è parte di quel Progresso con la maiuscola di cui è tanto di moda,
oggi, parlare male – ha cambiato le carte in tavola. Ne sono nati
nuovi problemi, naturalmente, come quello del sovrappopolamento del pianeta,
ma sono state eliminate, in compenso, una quantità di occasioni di sgomento
e di sofferenza. Tuttavia, che quello della nascita sia un momento
pericoloso per la madre e per i figli lo sappiamo tutti. Medea, che
era Medea, non una mammoletta, affermava, in un passaggio euripideo di
alta drammaticità, che avrebbe preferito correre qualsiasi pericolo e qualsiasi
sofferenza in guerra purché le fossero risparmiati quelli del partorire.
Certo,
il caso di Margherita e dei suoi fratelli (quattro dei quali sopravvivono
ancora, e speriamo che siano dichiarati presto fuori pericolo) non è privo
di interesse generale. Poteva rappresentare l’occasione per un dibattito
su una serie di problemi importanti, valoristicamente parlando. Che
senso ha volere a ogni costo la maternità a rischio della vita propria
e di quella dei nascituri? Non è, quella di far nascere delle creature
in simili condizioni, una forma piuttosto crudele di accanimento medico
terapeutico? Che cosa si può aspettare, chi affronta questo azzardo,
in termini di solidarietà e assistenza da parte dei propri simili?
Sarò
forse distratto, ma nella saga mediatica montata sul caso degli otto gemellini
, una bagarre che soltanto in questi giorni, di fronte agli esiti luttuosi,
si sta smontando (sulla sorte dei quattro superstiti è stato deciso il
silenzio stampa, ed era ora) non mi sembra di aver colto molto interesse
per questi interrogativi. La faccenda è stata trattata, dapprima,
come se fosse un record da registrare, nel senso che le gravidanze a otto,
pur non ignote alla letteratura medica, sono molto rare, per fortuna, e
poi come l’occasione per spremere fino all’ultima goccia di patetismo.
La madre non ha mai avuto il bene di essere definita con il suo cognome,
e con l’abituale epiteto di “signora”, ma è sempre stata per tutti “mamma
Mariella”, un trucco dal sapore dolciastro per stabilire tra lei e il
pubblico un’intimità fasulla, che alla povera donna non sarà certo servita
a molto, ma in compenso autorizzava chiunque a seguire con impudico voyeurismo
le sue sofferenze. I bambini sono sempre stati spiati dal punto
di vista, sommamente cinico, del “ce la faranno o non ce la faranno”,
come se fossero atleti alle olimpiadi della sopravvivenza. Della
privacy degli adulti e dei bambini coinvolti nessuno si è mai dato il minimo
pensiero. Un dramma umano e morale, in realtà, è stato ridotto alle
dimensioni di un banale dilemma di cronaca. Il dolore di un certo
numero di esseri umani è stato esibito come oggetto di consumo, è stato
offerto a un pubblico inconsapevolmente vampiresco perché ciascuno, immedesimandomi
per un attimo della tragedia altrui, potesse compiacersi dell’esserne,
in definitiva, fuori.
Personalmente non credo che i giornalisti
che hanno seguito la faccenda fossero tutti dei cinici senza cuore con
una foresta di pelo sullo stomaco. Suppongo che anche loro siano,
quale più, quale meno, delle brave persone, in grado di rendersi perfettamente
conto del male che possono fare e del livello cui abbassano una professione
il cui livello morale non può dirsi, già in sé, eccelso. Ma le regole
del gioco sono quelle e a quelle bisogna – tutti – attenersi.
Della disumanità di queste regole, forse,
varrebbe davvero la pena di liberarsi (C.O.)
15.10.’00