Dio sa se le “maggioranze variabili”
di cui si parla tanto in questi giorni non sono esattamente una novità
nella storia parlamentare italiana. Vi furono introdotte, se ricordo
bene, dai governi di Agostino Depretis, il cui primo incarico ministeriale
segnò, nel 1876, la caduta della cosiddetta “destra storica”. Anche
Depretis, come sembra capiti spesso agli esponenti della sinistra, o di
ciò che si dichiara per tale, una maggioranza vera e propria non l’aveva,
ma governò per oltre dieci anni (in alternanza con Benedetto Cairoli, suo
collaboratore e compagno di partito) raccogliendo via via i consensi che
riusciva a ottenere sui singoli provvedimenti di legge. I suoi avversari
parlarono, per definire questa tecnica, di “trasformismo” e non certo
con l’intenzione di fargli un complimento, ma questo non impedì che essa
fosse messa a frutto dai politici successivi: se ne servirono con profitto
tanto Crispi quanto Giolitti e, dopo la parentesi del fascismo, fu Togliatti
in persona a rimetterla in uso, con il celebre voto alla Costituente con
cui, rompendo la contrapposizione tra laici e cattolici, accettò, in pratica,
la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi. Il resto, come si
dice, è storia.
Niente
di nuovo o di sconvolgente, quindi. Piuttosto una pratica tradizionale,
il cui uso può essere fatto risalire a un certo numero di indiscussi padri
della patria. Oltretutto, anche se qualche oppositore ostinato, come
il Gobetti nella sua classica analisi del sistema politico italiano, si
è spinto fino a considerarlo il “vizio occulto” del nostro parlamentarismo,
il trasformismo, in sé, non è il male assoluto. Lo si può anzi considerare,
con un po’ di buona volontà, una conseguenza ineludibile del principio
liberale, sancito anche nella Costituzione italiana (art. 67), per cui
“ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua
funzione senza vincolo di mandato”, il che significa che deputati e senatori
possono votare per chi e per cosa vogliono indipendentemente dai programmi
su cui sono stati eletti. Il principio opposto, quello del “mandato
imperativo”, è legato a tutt’altre esperienze (Marx, nella Lotta di classe
in Francia lo considera addirittura la forma tipica della dittatura del
proletariato) e ben difficilmente potrebbe trovare posto in un sistema
politico come il nostro.
Tuttavia
il problema è proprio di mandato. Il patto tra gli elettori e gli
eletti è di natura più fiduciaria che formale, ma questo non inficia il
suo valore politico di fondo. In caso contrario, in realtà, non varrebbe
nemmeno la pena di andare a votare. Chi siede in Parlamento ha il
diritto di interpretare la volontà del suo elettorato con ogni possibile
flessibilità, ma non può spingersi fino a ignorarla, o a cambiare, come
pure succede, di fronte. Se su un qualche problema importante, tipo
quelli di cui si dibatte in questi giorni alla Camera e in Senato, esistono
nello schieramento di governo delle difformità inconciliabili, vuol dire
che per un motivo o per l’altro una maggioranza in merito non c’è e la
soluzione di surrogarla con i voti dell’opposizione va oltre la pratica
del trasformismo e si avvicina, per certi versi, a quella del colpo di
stato, nel senso della rottura dei principi di fondo che regolano, in una
democrazia rappresentativa, il gioco delle parti politiche.
L’affernazione
potrà sembrarvi esagerata, ma tenete conto, vi prego, almeno di un altro
aspetto del problema. Per definire, su un singolo provvedimento,
una maggioranza ostensibilmente diversa da quella uscita dalle urne, servono,
comunque, delle trattative. È improbabile che l’opposizione accorra
in aiuto del governo per motivi puramente di principio, perché concorda
in toto su una certa proposta o ritiene che lo richieda il superiore interesse
della Nazione. Queste sono belle parole, ma, nella pratica, è difficile
che non ci sia sotto qualche tipo di do ut des. E che cosa l’una
delle parti sia disposta esattamente a dare all’altra e in cambio di che
non ce lo verrà mai a dire nessuno, visto che una delle caratteristiche
delle trattative è quella per cui funzionano molto meglio quando hanno
un carattere, come dire, riservato e si svolgono al riparo da sguardi indiscreti.
Onde la necessità di tenere sempre sotto un certo controllo i mezzi
di informazione e di riferire al popolo bue solo quanto si pensa di potergli
riferire senza doverne subire danno. Qualcuno potrà sempre sospettare,
per fare un esempio a caso, che il voto sull’Afghanistan possa essere
stato propiziato da una certa retromarcia sul problema delle coppie di
fatto, o qualcosa del genere, ma i semplici sospetti, si sa, in politica
non hanno corso legale. Tranne forse quello per cui, in simili casi,
si finisce sempre per scambiare un vantaggio provvisorio con un danno irreversibile.
11.03.’07