Una pratica tradizionale

La caccia | Trasmessa il: 03/11/2007



Dio sa se le “maggioranze variabili” di cui si parla tanto in questi giorni non sono esattamente una novità nella storia parlamentare italiana.  Vi furono introdotte, se ricordo bene, dai governi di Agostino Depretis, il cui primo incarico ministeriale segnò, nel 1876, la caduta della cosiddetta “destra storica”.  Anche Depretis, come sembra capiti spesso agli esponenti della sinistra, o di ciò che si dichiara per tale, una maggioranza vera e propria non l’aveva, ma governò per oltre dieci anni (in alternanza con Benedetto Cairoli, suo collaboratore e compagno di partito) raccogliendo via via i consensi che riusciva a ottenere sui singoli provvedimenti di legge.  I suoi avversari parlarono, per definire questa tecnica, di “trasformismo” e non certo con l’intenzione di fargli un complimento, ma questo non impedì che essa fosse messa a frutto dai politici successivi: se ne servirono con profitto tanto Crispi quanto Giolitti e, dopo la parentesi del fascismo, fu Togliatti in persona a rimetterla in uso, con il celebre voto alla Costituente con cui, rompendo la contrapposizione tra laici e cattolici, accettò, in pratica, la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi.  Il resto, come si dice, è storia.
        Niente di nuovo o di sconvolgente, quindi.  Piuttosto una pratica tradizionale, il cui uso può essere fatto risalire a un certo numero di indiscussi padri della patria.  Oltretutto, anche se qualche oppositore ostinato, come il Gobetti nella sua classica analisi del sistema politico italiano, si è spinto fino a considerarlo il “vizio occulto” del nostro parlamentarismo, il trasformismo, in sé, non è il male assoluto.  Lo si può anzi considerare, con un po’ di buona volontà, una conseguenza ineludibile del principio liberale, sancito anche nella Costituzione italiana (art. 67), per cui “ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato”, il che significa che deputati e senatori possono votare per chi e per cosa vogliono indipendentemente dai programmi su cui sono stati eletti.  Il principio opposto, quello del “mandato imperativo”, è legato a tutt’altre esperienze (Marx, nella Lotta di classe in Francia lo considera addirittura la forma tipica della dittatura del proletariato) e ben difficilmente potrebbe trovare posto in un sistema politico come il nostro.
        Tuttavia il problema è proprio di mandato.  Il patto tra gli elettori e gli eletti è di natura più fiduciaria che formale, ma questo non inficia il suo valore politico di fondo.  In caso contrario, in realtà, non varrebbe nemmeno la pena di andare a votare.   Chi siede in Parlamento ha il diritto di interpretare la volontà del suo elettorato con ogni possibile flessibilità, ma non può spingersi fino a ignorarla, o a cambiare, come pure succede, di fronte.  Se su un qualche problema importante, tipo quelli di cui si dibatte in questi giorni alla Camera e in Senato, esistono nello schieramento di governo delle difformità inconciliabili, vuol dire che per un motivo o per l’altro una maggioranza in merito non c’è e la soluzione di surrogarla con i voti dell’opposizione va oltre la pratica del trasformismo e si avvicina, per certi versi, a quella del colpo di stato, nel senso della rottura dei principi di fondo che regolano, in una democrazia rappresentativa, il gioco delle parti politiche.
        L’affernazione potrà sembrarvi esagerata, ma tenete conto, vi prego, almeno di un altro aspetto del problema.  Per definire, su un singolo provvedimento, una maggioranza ostensibilmente diversa da quella uscita dalle urne, servono, comunque, delle trattative.  È improbabile che l’opposizione accorra in aiuto del governo per motivi puramente di principio, perché concorda in toto su una certa proposta o ritiene che lo richieda il superiore interesse della Nazione.  Queste sono belle parole, ma, nella pratica, è difficile che non ci sia sotto qualche tipo di do ut des.  E che cosa l’una delle parti sia disposta esattamente a dare all’altra e in cambio di che non ce lo verrà mai a dire nessuno, visto che una delle caratteristiche delle trattative è quella per cui funzionano molto meglio quando hanno un carattere, come dire, riservato e si svolgono al riparo da sguardi indiscreti.  Onde la necessità di tenere sempre sotto un certo controllo i mezzi di informazione e di riferire al popolo bue solo quanto si pensa di potergli riferire senza doverne subire danno.  Qualcuno potrà sempre sospettare, per fare un esempio a caso, che il voto sull’Afghanistan possa essere stato propiziato da una certa retromarcia sul problema delle coppie di fatto, o qualcosa del genere, ma i semplici sospetti, si sa, in politica non hanno corso legale.  Tranne forse quello per cui, in simili casi, si finisce sempre per scambiare un vantaggio provvisorio con un danno irreversibile.

11.03.’07