Una città diversa

La caccia | Trasmessa il: 05/10/2009


    Non abuserò del vostro tempo spiegandovi che il Matteo Salvini, quello che, per ragioni di “sicurezza”, ha proposto di riservare un certo numero di carrozze del metrò ai cittadini milanesi doc, non è altro che un volgare razzista. Probabilmente lo saprete già, come lo sanno, d'altronde, quei suoi compagni di partito o di coalizione che si sono affrettati a prendere le distanze dalla proposta. Non tutti, a dire il vero, hanno sentito la necessità di condannare il razzismo in quanto tale o di affermare la pari dignità degli utenti dei servizi pubblici, ma, evidentemente, nel centrodestra l'idea di trovarsi coinvolti, alla vigilia delle elezioni, in una polemica alla Little Rock non è particolarmente gradita. Così, la Moratti, sottraendosi per un momento alle sue alte frequentazioni internazionali, si è degnata di ricordare che “a Milano la sicurezza sui mezzi pubblici è già ampiamente garantita” e qualcosa del genere ha ammesso persino il suo vice, quel De Corato che nella caccia all'extracomunitario non è notoriamente secondo a nessuno. Il tono generale mi sembra ben espresso nel commento di quel campione della democrazia che è il ministro La Russa, secondo il quale l'idea del collega è sì “una scivolata”, ma una scivolata che “mette in difficoltà” la maggioranza e “rende più difficile il governo dei problemi riguardanti la sicurezza e l'immigrazione.” Secondo lui, “invece di pensare ai quattro voti che forse ha portato a casa” Salvini “dovrebbe chiedersi se questa è una soluzione percorribile”.
    Ecco. Se devo essere proprio sincero, vi confesserò che tra tutte le prese di posizione che nel fine settimana si sono rincorse sul tema, questa di La Russa mi sembra, al tempo stesso, la più sincera e la più preoccupante. E non tanto perché un membro autorevole del governo scarti una soluzione razzista in ragione soltanto della sua non percorribilità: come quello di Salvini, anche il quadro valori cui si ispira il ministro della difesa ci è largamente noto. Ma quell'accenno un po' astioso (e non privo di invidia) ai “quattro voti” che l'esponente leghista si sarebbe portato a casa, be', quello sì che ci dovrebbe deprimere tutti.
    Perché, diciamocelo pure, l'analisi di La Russa, una volta tanto, è azzeccata. Milano non sarà una città razzista, come tutti, in occasioni di questo genere, si sentono in dovere di assicurare, ma nutre e alleva una quantità indicibile di razzisti, di gente disposta a prendere in considerazione, e a premiare con il proprio voto, l'ipotesi di istituire, nell'anno di grazia 2009, la segregazione in metrò. Di gente che ha ormai archiviato la cultura del lavoro e dell'accoglienza che in passato ha reso grande la loro città, che confonde la sicurezza con il privilegio – perché si comincia con i vagoni riservati e chissà cosa si finisce per farsi riservare – che giustifica la propria mediocrità culturale e umana colpevolizzando gli altri da sé e in quella sfida epocale rappresentata dalle migrazioni a livello planetario vede soltanto una minaccia alla propria miserevole identità. Non per niente la città, nell'ultimo quarto di secolo, ha espresso un ceto dirigente in cui allignano figure come quella di Salvini, che dai suoi più compassati colleghi si distingue soltanto perché è meno sensibile alle esigenze dell'ipocrisia. La sua proposta, in effetti, non è né una provocazione né una boutade: è un disvelamento di sé in cui si possono riconoscere e di fatto si riconoscono le pulsioni profonde di buona parte dei nostri concittadini e dei loro amministratori.
    A questa città, così diversa da quella che i milanesi della mia generazione hanno conosciuto e amato, faccio fatica, confesso, ad avvezzarmi. Altrettanta fatica faccio ad accettare il fatto che molte delle analisi di quel tipo siano state assunte, ormai, anche dalla parte politica che, in teoria, dovrebbe rappresentarmi. Sarà colpa mia, non ne dubito, sarà un'ennesima dimostrazione dell'incapacità, mia e dei miei simili, di tenermi al passo dei tempi. O forse sarà l'incapacità, tutto sommato scusabile, di considerare un progresso quella che è a tutti gli effetti una ricaduta nella barbarie.

    10.05.'09