Spero di non offendere nessuno, ma a
me la notizia dell’uccisione, a Gaza, dello sceicco Yassin ha fatto venire
in mente uno dei racconti più inquietanti dell’Aleph di Borges: quel Deutsches
Requiem in cui un feroce aguzzino nazista, sul procinto di essere fucilato,
dopo lo sconfitta, come criminale di guerra, riflette sulla sua vita e
conclude di non potersi lamentare del proprio destino, perché la violenza
che lo sta per travolgere è esattamente quella che lui e i suoi camerati
hanno scatenato sul pianeta e il fatto di stesso di dovervi soccombere
significa, comunque, che la loro causa ha trionfato. “Il mondo”
fa dire Borges al personaggio “moriva di giudaismo e di quella malattia
del giudaismo che è la fede di Gesù: noi gli insegnammo la violenza e la
fede della spada.” Di fronte al fatto che “si libra ora sul mondo
un’epoca implacabile” poco importa chi sia il martello e chi l’incudine.
Quello che conta, in questa prospettiva rovesciata, è che “il cielo”
esista, anche se il luogo di chi lo ha voluto è l’inferno.
Borges
scrive nella Nota finale, del ’49, che quel breve, intenso racconto voleva
intendere “la tragedia del destino tedesco”, ma questa spiegazione, come
molte di quelle che quello scrittore ha dato della propria opera, è in
qualche modo riduttiva. Ciò che voleva affermare, in effetti, è che
il mondo che usciva dalla seconda guerra mondiale aveva ben poche speranze
di veder onorati gli impegni di giustizia, legalità e democrazia in nome
dei quali la guerra era stata combattuta e vinta e non si può negare, oltre
mezzo secolo dopo, che questa amara profezia si sia realizzata fin troppe
volte. Il fatto che, oggi, i discendenti delle vittime di allora
non sappiano trovare un’altra fede cui affidarsi contro i loro nemici
che quella, appunto, della violenza e della spada, ne è soltanto una ulteriore,
tragica conferma.
Non
si tratta, per carità, di dare del nazista a nessuno. Allora, Borges,
che, dopotutto, era un antifascista piuttosto conservatore, non poteva
rendersi conto di quanto quella fede non fosse solo un portato della volontà
di potenza di Hitler e dei suoi, ma affondasse le radici nella stessa struttura
della società, da una parte e dall’altra del fronte. Oggi, so anch’io
che lo sceicco Yassin non era un mite vecchietto malato e paralizzato,
degno solo di pietà e reverenza e concordo sul fatto che a tutti vada riconosciuto,
comunque, il diritto di difendersi. Ma, appunto, a tutti. In
un conflitto in cui le responsabilità dei contendenti sono inestricabilmente
confuse, in cui entrambe le parti hanno ottime ragioni per sentirsi offese,
ma le forze in campo sono troppo dispari per mettere tutti davvero sullo
stesso piano, ogni gesto di violenza e di illegalità, ogni violazione dei
diritti individuali e internazionali, va esattamente nella direzione prevista
dal maestro argentino.
Il fatto è che quello che succede oggi
in quel lembo di terra tra la Siria e l’Egitto, quella guerra incessante
e feroce che gli uomini della mia generazione dubitano ormai di vedere
conclusa, suona come una specie di requiem globale della nostra civiltà.
Il fatto che i nostro governi non abbiano saputo reagire all’ultima
escalation dell’alleato israeliano altro che con un’orgia di distinguo,
strettamente funzionali – in ultima analisi – al cinico veto americano
in Consiglio di Sicurezza, non è soltanto una prova di ipocrisia. Dimostra,
semplicemente, che non siamo più in grado di essere quello che dichiariamo
di essere, il che non è forse la condizione migliore per affrontare uno
scontro di civiltà.
28.03.’04