Un osso in gola

La caccia | Trasmessa il: 06/16/2007


    Pierluigi Battista, si sa, è un giornalista di vaglia e non sarebbe diventato, altrimenti, vicedirettore del “Corriere della Sera”. Ha tuttavia un difetto, o, per meglio dire, una (blanda) fissazione: è convinto che quello di sinistra sia un concetto irrimediabilmente preterito e che qualsiasi tentativo di riesumarlo vada sanzionato con una adeguata misura di severità e di sarcasmo. Sa il cielo, naturalmente, che non è il solo a pensarla così: viviamo in un universo mediatico in cui termini come “progressista” e “conservatore” si sono allegramente scambiati di segno e in cui le uniche “riforme” di cui si auspica la rapida realizzazione sono quelle volte a diminuire i diritti dei più e a incrementare i profitti dei pochi e guai a chi ancora ci trova qualcosa da eccepire. Ma Battista ci mette, diciamo, un quid di entusiasmo in più, riesce a trovare prove dell’eclissi del pensiero progressista nelle sedi più inaspettate. Così, giovedì scorso, sul suo giornale, prende spunto da un innocuo convegno sulla “etica pubblica” alla fondazione Olivetti di Roma, svoltosi con la partecipazione di Fassino, Reichlin, la Melandri e un gruppo di scelti pensatori (Sebastiano Maffezzone, Giulio Giorello, Claudia Mancina, Lorenzo Sacconi, Salvatore Veca…), un’assise – sembra – in cui i convenuti non politici non si sono dimostrati proprio entusiasti delle scelte del centrosinistra, per annunciare fin dalla prima pagina che è andato a puttane anche “l’ultimo rito del Partito che fu”: il rapporto della sinistra con gli intellettuali. E giù sette colonne di rievocazione, un po’ perfida, dei tempi in cui la “battaglia delle idee” faceva parte istituzionale del patrimonio del Partito Comunista, luminari come Concetto Marchesi e Ranuccio Bianchi Bandinelli ne gremivano le fila, Bernardo Bertolucci discuteva da pari a pari con Berlinguer e centinaia di firme illustri fioccavano sotto gli appositi appelli e va bene che Togliatti non gliene lasciava passare una e trattava male Vittorini, poveruomo, ma vuoi mettere adesso che il suo ultimo successore si fa sbertucciare da un Giorello qualsiasi? È proprio vero, conclude implicitamente il vicedirettore, che la sinistra è finita, come sono finiti i suoi rituali.
    Sarà vero, naturalmente e certo l’idea di un Fassino alle prese con una platea di pensatori un po’ fa sorridere, ma è anche vero che, a questo punto, il lettore avveduto comincia a sentire un vago sentore di bruciaticcio. Forse, viene da pensare, Battista si lascia portare un po’ troppo dall’entusiasmo e non si accorge che le argomentazioni del genere rischiano, a volte, di essere controproducenti. Togliatti, in fondo, è morto da quarantatre anni, Vittorini da quarantuno, di appelli contro l’atomica non se ne firmano più, si sono scritte migliaia e migliaia di pagine per denunciare l’ambiguità del rapporto che univa certi grandi intellettuali europei – i Sartre, i Picasso, gli Aragon, i Moravia – con i rispettivi partiti comunisti… eppure l’impressione è quella che il tema dei rapporti tra sinistra e cultura al pensiero unico corrente non vada ancora giù. È un osso in gola che lorsignori cercano invano di inghiottire dai tempi del Fronte Popolare in Francia. Si ostinano a spiegare tre quarti di secolo di egemonia culturale in termini di moda, di convenienza, di carrierismo, di strutture organizzative e quant’altro, ne sottolineano instancabilmente le aporie e le contraddizioni e non riescono a nascondere la preoccupazione che sotto sotto ci si possa trovare qualcosa di più. Che forse quella vecchia intuizione marxiana (e gramsciana) sul valore rivoluzionario della verità e sul ruolo degli intellettuali come assertori, appunto, di verità meriti qualcosa di più della sufficienza con la quale ormai la si tratta.
    Permettetemi di non entrare nel merito di questa eterna, noiosissima controversia. Ciascuno, Battista compreso, la pensi come vuole. Ma, certo, se vogliamo cercare una qualche forma di grossolana verifica sperimentale, potremmo cercarla nella palese latitanza del pensiero conservatore contemporaneo e delle sue espressioni artistiche. Non mi riferisco ai grandi, eh: lungi da me l’idea di sminuire la grandezza di figure quali Max Weber, Karl Schmitt, José Ortega y Gasset, Mircea Eliade et similia. Ma è certo, tanto per attingere ai giornali dello stesso giovedì, che quando Sgarbi vuole inserire qualche scrittore, dice lui, “non comunista” nel festival estivo delle biblioteche in giardino, qui a Milano – se no la Moratti minaccia di non sganciare i 198.000 euro previsti – non trova di meglio di un paio di giornalisti e di quel noto intellettuale di don Verzé. Sarà un caso o sarà che i criteri del noto critico vanno considerati un po’ troppo rigidi, ma l’impressione è che su quel fronte ci sia ancora una quantità di lavoro da fare.

17.06.’07