Un museo da evitare

La caccia | Trasmessa il: 10/22/2000



Forse non lo sapete (mi auguro, anzi, che non lo sappiate), ma la nostra città al turista avido di musei non offre soltanto la possibilità di visitare l’Accademia di Brera, il PAC, il Museo della Scala, le raccolte d’arte al Castello (dove, date retta a me, sarà bene affrettarsi per ammirare la Pietà Rondanini prima che la nuova sistemazione la renda praticamente invisibile) e, per quel che ne rimane, il Cenacolo di Leonardo.  Esibisce anche, accanto a un certo numero di esposizioni e raccolte minori, un Museo degli Strumenti di Tortura.  Non è uno scherzo, ve lo assicuro: si trova in via Carducci al civico 41, in quel bell’esempio di falsa architettura medioevale che è la Pusterla di S. Ambrogio, dove una volta era esposta, mi sembra, una collezione di armi antiche.   Adesso – a giudicare dai poster affissi – vi ci si espone, tra l’altro, una sedia elettrica e accanto alla sedia elettrica chissà quali altri ammennicoli l’ingegnosità degli uomini ha escogitato per assicurare ai propri consimili un trapasso tanto penoso quanto prematuro.
        Naturalmente, io in quel museo non ho mai posto piede, né consiglio a voi di farlo.  L’idea che di quegli orribili attrezzi si possa prender visione per diletto, senza esservi costretti – che so – da improrogabili ragioni di studio, mi dà il voltastomaco.  Eppure il museo c’è e, dato che mi risulta essere gestito da privati, presumibilmente è frequentato da quanti visitatori bastano per renderne la gestione proficua.  Basterebbe questo per confortare un’ipotesi che mi è capitato più di una volta di sottoporvi: quella per cui la popolarità di cui, a quanto pare, godono in tutto il mondo le punizioni fisiche, dalle sculacciate ai bambini su su fino alla pena di morte, non è certo giustificata, checché se ne dica, dalle austere motivazioni che i vari Bush e Doyle sono soliti addurre, ma dal fatto che a tormentare i propri simili, fino al volerli liberare loro malgrado da questo fragile involucro terreno, la maggior parte degli uomini ci prova un terribile gusto e che, non potendo – per ovvi motivi – farlo in proprio, si accontentano di lasciare che provvedano, in forma delegata e sotto qualche accettabile scusa giuridica, le autorità competenti.  Che, cioè, le tristi fortune della tortura abbiano più a che fare con quelle pulsioni nella cui descrizione tanto si è distinto il compianto Marchese de Sade che con l’evoluzione del diritto penale.
        Mi direte, suppongo, che così va il mondo e che non ci si può fare niente.  Figuriamoci: lo so anch’io.  O meglio, qualcosina, forse, fare lo si potrebbe, ma i risultati li si potrebbero cogliere solo sul lungo periodo.  Compiaciamoci dunque di vivere in una città abbastanza civile, in cui il rifiuto della pena di morte è stato espresso, anche di recente, a livello di consiglio comunale, nonostante il colore di quella maggioranza politica, e lasciamo che il museo degli strumenti di tortura lo frequentino soltanto quei tristanzuoli che vogliono frequentarlo.
        Sarà.  C’è solo una cosa che mi dà un fastidio terribile.  Uno di quegli strumenti (una sua copia, probabilmente, ma fa lo stesso) è esposto pubblicamente all’esterno della Pusterla.   Si tratta di quella piccola gabbia di ferro sospesa, in cui era uso, ai bei tempi, rinchiudere i condannati per lasciare che, sotto gli occhi di tutti e nella più scomoda delle posizioni, tirassero lentissimamente le cuoia.   Anche se non avete pratica di strumenti mortiferi, avrete probabilmente fatto conoscenza con quel turpe oggetto visionando, in cineteca, l’Otello di Orson Welles o leggendo, nei Saggi  del Montaigne, l’Apologia di Raimondo di Subunda.
        Non so cosa dirvi.  Sarà perché sono morbosamente sensibile, o perché un po’ soffro di claustrofobia, ma l’altro giorno mi sono accorto che da qualche tempo evitavo, a costo di lunghi e faticosi detour, di passare per la Cerchia dei Navigli, che pure rappresenta, per i miei spostamenti quotidiani, uno dei percorsi più convenienti.  Io quell’oggetto non lo voglio vedere.  Non mi piace che sia esposto in pubblico e ritengo, anzi, che il fatto che lo sia rappresenti una manifestazione insopportabile di violenza.  È vero che, quanto a violenza, Milano soffre di problemi più gravi e immediati, ma il fatto che nella città del Beccaria, pover’uomo, si espongano pubblicamente strumenti di tortura e di morte non mi pare, comunque, insignificante.  Voi che ne dite?

22.10.’00