Forse non lo sapete (mi auguro, anzi,
che non lo sappiate), ma la nostra città al turista avido di musei non
offre soltanto la possibilità di visitare l’Accademia di Brera, il PAC,
il Museo della Scala, le raccolte d’arte al Castello (dove, date retta
a me, sarà bene affrettarsi per ammirare la Pietà Rondanini prima che la
nuova sistemazione la renda praticamente invisibile) e, per quel che ne
rimane, il Cenacolo di Leonardo. Esibisce anche, accanto a un certo
numero di esposizioni e raccolte minori, un Museo degli Strumenti di Tortura.
Non è uno scherzo, ve lo assicuro: si trova in via Carducci al civico
41, in quel bell’esempio di falsa architettura medioevale che è la Pusterla
di S. Ambrogio, dove una volta era esposta, mi sembra, una collezione di
armi antiche. Adesso – a giudicare dai poster affissi – vi ci
si espone, tra l’altro, una sedia elettrica e accanto alla sedia elettrica
chissà quali altri ammennicoli l’ingegnosità degli uomini ha escogitato
per assicurare ai propri consimili un trapasso tanto penoso quanto prematuro.
Naturalmente,
io in quel museo non ho mai posto piede, né consiglio a voi di farlo. L’idea
che di quegli orribili attrezzi si possa prender visione per diletto, senza
esservi costretti – che so – da improrogabili ragioni di studio, mi dà
il voltastomaco. Eppure il museo c’è e, dato che mi risulta essere
gestito da privati, presumibilmente è frequentato da quanti visitatori
bastano per renderne la gestione proficua. Basterebbe questo per
confortare un’ipotesi che mi è capitato più di una volta di sottoporvi:
quella per cui la popolarità di cui, a quanto pare, godono in tutto il
mondo le punizioni fisiche, dalle sculacciate ai bambini su su fino alla
pena di morte, non è certo giustificata, checché se ne dica, dalle austere
motivazioni che i vari Bush e Doyle sono soliti addurre, ma dal fatto che
a tormentare i propri simili, fino al volerli liberare loro malgrado da
questo fragile involucro terreno, la maggior parte degli uomini ci prova
un terribile gusto e che, non potendo – per ovvi motivi – farlo in proprio,
si accontentano di lasciare che provvedano, in forma delegata e sotto qualche
accettabile scusa giuridica, le autorità competenti. Che, cioè, le
tristi fortune della tortura abbiano più a che fare con quelle pulsioni
nella cui descrizione tanto si è distinto il compianto Marchese de Sade
che con l’evoluzione del diritto penale.
Mi
direte, suppongo, che così va il mondo e che non ci si può fare niente.
Figuriamoci: lo so anch’io. O meglio, qualcosina, forse, fare
lo si potrebbe, ma i risultati li si potrebbero cogliere solo sul lungo
periodo. Compiaciamoci dunque di vivere in una città abbastanza civile,
in cui il rifiuto della pena di morte è stato espresso, anche di recente,
a livello di consiglio comunale, nonostante il colore di quella maggioranza
politica, e lasciamo che il museo degli strumenti di tortura lo frequentino
soltanto quei tristanzuoli che vogliono frequentarlo.
Sarà.
C’è solo una cosa che mi dà un fastidio terribile. Uno di
quegli strumenti (una sua copia, probabilmente, ma fa lo stesso) è esposto
pubblicamente all’esterno della Pusterla. Si tratta di quella piccola
gabbia di ferro sospesa, in cui era uso, ai bei tempi, rinchiudere i condannati
per lasciare che, sotto gli occhi di tutti e nella più scomoda delle posizioni,
tirassero lentissimamente le cuoia. Anche se non avete pratica di
strumenti mortiferi, avrete probabilmente fatto conoscenza con quel turpe
oggetto visionando, in cineteca, l’Otello di Orson Welles o leggendo,
nei Saggi del Montaigne, l’Apologia di Raimondo di Subunda.
Non
so cosa dirvi. Sarà perché sono morbosamente sensibile, o perché
un po’ soffro di claustrofobia, ma l’altro giorno mi sono accorto che
da qualche tempo evitavo, a costo di lunghi e faticosi detour, di passare
per la Cerchia dei Navigli, che pure rappresenta, per i miei spostamenti
quotidiani, uno dei percorsi più convenienti. Io quell’oggetto non
lo voglio vedere. Non mi piace che sia esposto in pubblico e ritengo,
anzi, che il fatto che lo sia rappresenti una manifestazione insopportabile
di violenza. È vero che, quanto a violenza, Milano soffre di problemi
più gravi e immediati, ma il fatto che nella città del Beccaria, pover’uomo,
si espongano pubblicamente strumenti di tortura e di morte non mi pare,
comunque, insignificante. Voi che ne dite?
22.10.’00