Un eroe dei nostri tempi

La caccia | Trasmessa il: 12/09/2007


    Chissà perché l'ufficio stampa della Mondadori, che ogni tanto mi manda dei libri da recensire, ma mi manda, naturalmente, soltanto dei gialli, perché sono quelli i soli libri che recensisco, ha deciso di farmi avere, tra tutti i volumi possibili, una copia dell'autobiografia di Mike Bongiorno. Qualcuno, evidentemente, si sarà sbagliato. Comunque per qualche giorno il volume è restato lì, in evidenza sulla mia scrivania, un grosso tomo 24 per 6,5, di ben 446 pagine, di cui 62 di fotografie fuori testo, e alla fine, fatalmente, mi sono deciso a sfogliarlo. Non che sia particolarmente appassionato di personaggi televisivi, ma sono sempre stato incapace di lasciarmi passare un libro per le mani senza dargli almeno un'occhiata e poi, sì, c'era un particolare della vita del celebre presentatore che avevo sempre desiderato chiarire e forse quella era l'occasione buona. Mi ero sempre chiesto, vi confiderò, come avesse reagito il Mike nazionale alla pubblicazione, nel 1961, della celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco. Perché è vero che il saggio non si adonta per i motteggi e le prese in giro, ma li liquida con un sorriso di tranquilla superiorità, ma qualcosa mi diceva che non era questo il caso e avevo sempre supposto che dall'interazione di due personaggi così significativi per la cultura italiana potesse venir fuori qualcosa di succoso.
    Be', il saggio non si adonta, ma non c'è dubbio che Mike Buongiorno di quella bonaria caricatura si sia adontato allora e se ne adonti ancora adesso. Vi dedica un intero capitolo (La mia fenomenologia) e riferisce con scrupolo, da pagina 155 a pagina 158, delle varie accuse che Eco gli aveva mosso, da quella di rappresentare il perfetto prototipo dell'uomo comune, che “non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi” a quella di parlare “un basic italian” che “abolisce i congiuntivi, le preposizioni subordinate” e “riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi”, per non dire di quella di portare “i clichés alle estreme conseguenze” e di infilarsi, di conseguenza, in una serie infinita di gaffes, indizio certo di una sorta di naïveté, di una “sincerità non mascherata”, tipica di chi è sincero “per sbaglio e sconsideratezza” e di essere, infine, “privo di senso dell'umorismo”, come colui che ride “perché contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà”. Evidentemente si è segnato tutto e non è disposto a dimenticarlo.
    A tutto questo, comunque, sa rispondere puntualmente. L'accusa di non avere una cultura formale, fa notare, è ingiusta, perché i suoi studi sono stati interrotti dalla guerra, ma, come ben dimostrano sessant'anni di continua interazione con il pubblico, poche persone come lui “possiedono una cultura e una conoscenza così approfondita del nostro paese e della gente che lo abita.” La sincerità, lo sanno tutti, è una virtù e, di questi tempi, è “meglio eccedere in una cosa del genere che in altre qualità specifiche”. L'umorismo... be', tutti i telespettatori possono testimoniare che di umorismo ne ha sempre avuto a bizzeffe e non bisogna “confondere il rigore e la serietà professionale” con la sua mancanza. Negli oltre quarant'anni trascorsi da allora, durante le numerose manifestazioni culturali cui (nonostante quella pretesa ignoranza) è stato invitato, gli è capitato spesso di incontrare Umberto Eco e ha “tentato più volte di avvicinarlo per ridere insieme a lui” di quella descrizione, che, in fondo, era servita anche ad aumentare la sua popolarità, ma, sfortunatamente, i due non sono mai riusciti a sedersi a quattr'occhi da soli e a “smitizzare la cosa”.
    Sarà stata la sfortuna, ma è probabile che ci abbia avuto parte una certa acrimonia. Se ne colgono le tracce in qualche altro passaggio del volume: a pagina 163, quando lodando “la bravura e le caratteristiche culturali” di Enzo Tortora non riesce a non aggiungere tra parentesi “cose che, se ben ricordate, secondo Umberto Eco io invece non possedevo”; a pagina 282, quando fa notare come a detta di molti i suoi spot con Fiorello dimostrino comicità vera e grande ironia, e ripete “cosa di cui, se ben mi ricordo, Umberto Eco nella sua Fenomenologia mi aveva accusato di non possedere” e altrove, come quando ricorda maliziosamente che, nelle riunioni redazionali che precedevano le messe in onda di Lascia o raddoppia?, cerimonie in cui lui, Mike, era ovviamente al centro, il giovane Umberto Eco, all'epoca funzionario RAI alle prime armi, aveva il modesto incarico di portare le buste con le domande.
    Naturalmente la sintassi dell'italiano non permetterebbe di scrivere una frase come “cosa di cui non possedevo”, e il passaggio conferma clamorosamente la vecchia accusa di non dominare quella dimensione, ma il problema non sta solo qui. Tutte le 383 pagine scritte dell'autobiografia, in realtà, attestano con altrettanto clamore che quanto Eco aveva denunciato in quel famoso brano del Diario minimo era ed è sostanzialmente vero. A parte la dimensione sintattica, rigorosamente ridotta al piano della paratassi, che può essere anche – volendo – una scelta stilistica, non c'è, in quelle pagine, pur piacevoli e ben scritte (ma Mike si è fatto aiutare dal figlio Nicolò, che è, evidentemente, l'intellettuale di famiglia) un solo guizzo di umorismo, una fugace scintilla di capacità autocritica. L'autore si prende sempre terribilmente sul serio, sia quando racconta delle sue esperienze nella guerra partigiana e a San Vittore, sia quando riferisce del debutto di Campanile sera ed è capace di concedersi una pagina a mezza abbondante per assicurare a tutti che lui alla signora Longari non aveva mai detto che, ahi ahi, gli era caduta sull'uccello. Con pari seriosa mancanza di spirito critico, d'altronde, tratta il resto del mondo: non si sforza in alcun modo di mettere su un piano diverso l'assegnazione di un Telegatto, una trasformazione sociale importante o un evento politico epocale, riferisce con pari equanimità di come gli venne l'idea dei vari quiz e delle circostanze del concepimento dei propri figli (sempre puntualmente registrato), passa con assoluta naturalezza dalla rievocazione del suicidio di Luigi Tenco a quella della contesa con Pippo Baudo a proposito del numero di Festival di Sanremo presentati e gli anni '70, in cui pure, ricorda, ebbero luogo alcuni interessanti cambiamenti del costume e del modo di vivere, per lui restano soprattutto quelli di Rischiatutto. Sarebbe vano, infine, cercare in quelle pagine il benché minimo coinvolgimento ideologico: Mike parla della Resistenza, cui pure ha partecipato con onore, senza spendere una parola sulle motivazioni sue e degli altri e anche se non ha difficoltà ad ammettere che Berlusconi è l'uomo della sua vita, se non altro perché a suo tempo gli alzò lo stipendio da trenta a seicento milioni annuali, ha cura di precisare che lo è anche Vittorio Veltroni, padre dell' “amato sindaco di Roma e ora a furor di popolo anche leader del nuovo Partito democratico”, che gli offrì il primo ingaggio in RAI.
    Dobbiamo dunque registrare, quarantasei anni dopo, il trionfo di Umberto Eco e delle sue accuse? Mah... non ne sarei troppo sicuro. Eco, dopo tutto, in quel saggio, che – anche se Mike non se ne poteva rendere conto – aveva un carattere essenzialmente comico, a partire dal titolo, che si riferiva alla moda, allora diffusa, del pensiero di Edmund Husserl, si poneva nei panni dell'intellettuale tradizionale di fronte a una tipica espressione della cultura di massa. Lui, che era stato l'alfiere del significato culturale dei fumetti e dei gialli e, pi in generale, il rivalutatore del trash, di fronte alla televisione e a un suo personaggio di punta reagiva con spirito, sì, ma senza riuscire a nascondere un tanto di puzza sotto al naso. Con il risultato di non rendersi conto – esattamente come la sua vittima – di come quelle caratteristiche, ben lungi dal rappresentare delle mende di cui purgarsi o delle lacune da colmare, fossero il marchio del successo e il vero segno dei tempi nuovi.
    La Fenomenologia di Mike Bongiorno, d'altronde, prima di essere pubblicata nel Diario minimo, era apparsa in un più ampio saggio (sul “Verri”, credo) in cui ci si chiedeva se non fossimo avviati, come suonava il titolo, Verso una civiltà della visione. Nessuno negherà che a quella meta oggi siamo felicemente giunti e che, grazie anche a quella sorta di reciprocità che fatalmente si instaura tra ogni rappresentazione visiva e il mondo che riflette e costituisce, i modelli visivi e televisivi vanno considerati, a tutti gli effetti, degli autentici modelli sociali. Mike Bongiorno all'epoca aveva i suoi difetti e le sue lacune (e con gli anni, comunque, se ne è in gran parte emendato), ma rappresentava già allora il prototipo del futuro uomo di successo. Offriva il fianco ai motteggi dei vari Eco soltanto perché anticipava i tempi. Basta guardare, per convincersene, i politici che vanno oggi per la maggiore. Non dico dei Prodi, dei Bossi, dei D'Alema e dei Berlusconi, tutti legati, in un modo o nell'altro, a un passato inguaribilmente preterito, ma i cinquantenni emergenti, i Fini, i Casini, i Veltroni e gli altri non sono forse altrettanti cloni aggiornati del giovane Mike, di cui condividono la totale mancanza di umorismo, l'ostentata, pretesa mitezza, la diffidenza per il congiuntivo e il periodo ipotetico, la concentrazione assoluta sul proprio ombelico? Ed è sommamente ingiusto, ne converrete, che a quel tipico eroe dei nostri tempi nessuno abbia reso, finora, il debito omaggio e il giusto riconoscimento e che il poveraccio sia stato costretto, alla fine, a renderseli da sé.
    Con il che mi accorgo che una specie di recensione l'ho fatta e che quelli della Mondadori mandandomi il libro sapevano il fatto loro.