Un buon motivo per non leggere un libro

La caccia | Trasmessa il: 05/17/2004



Giuro, giuro solennemente che in tanti anni che recensisco gialli e affini, qui a Radio Popolare o altrove, non ho mai raccomandato, né sconsigliato agli ascoltatori un libro che non avessi letto da cima a fondo.  Si tratta, in realtà, di una pratica più diffusa di quanto non si supponga e facilitata dall’usanza, cara agli uffici stampa delle case editrici, di accompagnare le copie inviate per recensione con un accurato riassunto dell’opera e un ampio repertorio delle critiche già apparse, ma vi garantisco di non essermici mai piegato.  Come ho già avuto occasione di dichiarare, scrivere di libri è una pratica già abbastanza noiosa in sé perché ci si debba negare l’unico piacere che i libri possono dare, che è quello, ovviamente, di leggerli.
        Mi è tuttavia capitato in mano, giorni fa, un romanzo che sono fortemente tentato di sconsigliare a chiunque, anche se non l’ho letto e non ho, al momento, nessuna intenzione di leggerlo.  E capirete: un’opera di narrativa conta per sé, come a dire per il proprio testo, ma i testi, nella pratica editoriale corrente, sono scortati da un “paratesto” (le indicazioni in prima e quarta di copertina, nei risvolti e via andare) da cui non è facile prescindere.  E il paratesto dell’opera in questione, ve lo assicuro, è tale che sembra fatto apposta per scoraggiare qualsiasi lettore di buona volontà.
        Cominciamo, non vi sembri strano, dal cognome dell’autrice.  Ecco: il cognome degli autori, in sé, non fa parte del paratesto, e, non essendo nessuno responsabile del nome che porta, non dovrebbe aver un gran peso critico, salvo che per possibili riferimenti a opere precedenti, il che, trattandosi di un’opera prima, qui non è il caso.   Ma se l’autrice, poveretta, si chiama (o si firma) Karin Slaughter, c’era proprio bisogno, secondo voi, di piazzare in quarta di copertina, sotto la sua foto, una voce del Ragazzini che spiega come il sostantivo slaughter in inglese significhi “1) macellazione; mattazione (raro)” e “2 (fig.) macello; carneficina; massacro; strage)”?  E  vi pare sensato cambiare in Corpi il titolo di un romanzo, che, nell’originale, suonava A Faint Cold Fear  (qualcosa come “Una fredda paura sottile”), illustrando la copertina con l’immagine della lama insanguinata di un coltellaccio e aggiungendovi a mo’ di “strillo” la raccomandazione “Non leggetelo di notte.  Non leggetelo da soli”?   Che se poi qualcuno chiedesse lumi ai risvolti, apprenderebbe che dalle pagine dell’autrice trasudano una violenza e una perversione che c’è solo da sperare non siano “uno specchio fedele della provincia americana” e che, d’altronde, con il cognome che si ritrova, la nostra Karin “a parte aprire un mattatoio” … “non avrebbe potuto trovarsi un lavoro più azzeccato.”  Quanto alla trama, be’, le informazioni sono succinte, ma esaurienti.  Ha a che fare con uno studente che muore, sembra, suicida, con la coroner locale che si presenta a ispezionare la salma in compagnia di una sorella incinta di otto mesi (la prospezione di cadaveri, com’è noto, è pratica raccomandatissima alle gestanti, ma la poveraccia, a quanto pare, verrà quasi subito accoltellata) e con il fatto che, di colpo, “la placida e rispettabile contea di Grant”, in Georgia, “precipita in un incubo terrificante” a base di “violenze domestiche, traffici di droga e festini a luce rosse, mentre il numero dei morti continua a salire” e una protagonista, ex poliziotta e guardia di sicurezza del campus locale, che dovrà infine risolversi “ad affrontare da sola le proprie paure, in un finale agghiacciante e brutale”.
        Avrete notato che nessuna delle informazioni fornite dall’editore con lo scopo, si presume, di incoraggiare l’acquisto e la lettura del libro, ha minimamente a che fare con il suo valore letterario.  Su questo, io, avendo deciso di non leggere il romanzo, non posso, ovviamente, ragguagliarvi.  Non so neanche se la giovane Slaughter sia davvero così trucida come assicura il suo editore italiano.  Ma so benissimo che di un libro che mi si raccomanda solo in nome di un contenuto violento non so assolutamente che fare.  Il rischio di imbattersi in una presentazione editoriale troppo lusinghiera, in un paratesto, se mi permettete il bisticcio, un po’ paraculo, è naturalmente di quelli che corre qualsiasi lettore, ma da quello abbiamo imparato tutti a difenderci.  Proposte di questo genere, invece, non sono sindacabili in alcun modo: sono, semplicemente, irricevibili.
        Vedete, io non sono un ammiratore di quella che un tempo, facendo torto alle lettrici non sposate, si definiva “letteratura per signorine”.  So che viviamo in un mondo violento e che, volendo rappresentarlo e dare ragione dei suoi problemi, dalla violenza non si può prescindere.  La stessa editrice Piemme, quella che pubblica il romanzo in questione, ha in catalogo autori come Michael Connelly e Robert Crais che in materia non si tirano indietro e che io ho sempre apprezzato.   Ma un conto è trattare la violenza come un problema su cui riflettere, un altro esibirla come un genere di consumo.  Se di un libro coloro che più di tutti dovrebbero aver interesse a magnificarne i pregi, non si sprecano neanche a dire che è scritto bene, mi si limitano ad assicurarmi che vi sono descritti molti fatti efferati, tanto che l’autrice potrebbe benissimo aprire un mattatoio, mi spiace, ma io non lo leggo.
         È strano, comunque, lo statuto di quel – come possiamo chiamarlo? Concetto? Valore? – , be’, insomma, lo statuto della violenza nella cultura di oggi.  È una prassi largamente diffusa, a livello pubblico e privato, un valore di cui la società intera è imbevuta e di cui si vantano i governi, che ne rivendicano l’inevitabilità in nome del fine che, adottandola, ci si propone.  D’altro canto, è anche un disvalore che mette automaticamente dalla parte del torto chi lo assume a livello individuale.  Con tutti si tratta, per tutti c’è posto, ma con i violenti e per i violenti no, proclamano quegli stessi statisti che mandano le truppe a combattere o che organizzano e pianificano le “esecuzioni mirate” dei loro nemici, non importa se a colpi di missile o mediante iniezione letale.  E quando la contraddizione sembra davvero difficile da mandar giù, quando la gente capisce che c’è qualcosa che non va, il pubblico ritorna privato e si finisce sempre per scoprire che a esercitare violenza – anche sul terreno di guerra, anche in regime di occupazione militare – sono, guarda un po’, soltanto dei devianti singoli, delle “mele marce” qualsiasi, degli individui corrotti che verranno, non se ne discute nemmeno, individuati con prontezza e puniti con severità.  Non è solo un problema di ipocrisia: è una contraddizione di fondo, anche se troppo grossa, probabilmente, per sperare di esaurirla in questa sede.   Ma è quella, comunque,  in cui si annidano le varie Karin Slaughter di questo mondo, e quanti ne sfruttano l’opera.  Una volta ogni tanto, forse, può valer la pena di non stare al gioco.

17.05.’04