Un avvertimento per tutti gli ascoltatori

La caccia | Trasmessa il: 03/14/2010


    Comunicazione di servizio per quanti tra voi abbiano notato come, nella programmazione del nuovo Teatro Puccini – della cui riapertura, dopo tutto questo tempo, molto ci rallegriamo – sia previsto uno spettacolo intitolato “La Caccia”, in calendario, credo, fino al prossimo 21 marzo. Si prega di prendere nota del fatto che non si tratta, ripeto, non si tratta di una versione teatrale di questa trasmissione e che quindi non bisogna aspettarsi di vedere sul palcoscenico l'uno o l'altro dei suoi curatori. Quella che va in scena, in effetti, è una interpretazione, come si dice oggi, multimediale delle Baccanti di Euripide, a cura e per la interpretazione di Luigi Lo Cascio, un uomo di teatro che personalmente non conosco, ma di cui mi dicono tutto il bene possibile. Niente da eccepire, ovviamente, perché non abbiamo mai rivendicato l'esclusività di quel titolo e, d'altra parte, nessuno è più consapevole di noi della scarsa o nulla teatralità del nostro formato. Ma la coincidenza (e il ricordo della fatica immane cui mi sono dovuto sottoporre, anni fa, nel tentativo di far leggere l'opera a una terza liceo particolarmente riottosa) mi ha spinto a interrogarmi sul senso che può avere il riproporre quel testo a un pubblico d'oggi. Già mettere in scena una qualsiasi tragedia antica è un azzardo, perché la funzione del teatro presso i greci era affatto diversa da come la concepiamo noi, ma chi sceglie, tra tutte, proprio quella va chiaramente in cerca di guai.
    Le Baccanti , si sa, prendono a oggetto un episodio della storia sacra del dio Dioniso. Ora, non sono io il solo a pensare che tra tutti gli abitanti dell'Olimpo nessun immortale possa essere più lontano di costui dall'esperienza dell'uomo moderno. Per quanti tentativi possano compiere gli antropologi per ridurlo a un innocuo dio di vegetazione, legato all'eterno morire e rinascere delle stagioni e associato ad alcune tipiche essenze mediterranee – la vite, innanzitutto, ma anche l'edera e il finocchio selvatico – quel dio si presenta sempre con l'immagine inquietante di chi esige dai suoi seguaci un completo rovesciamento esperienziale, una specie di fuoriuscita da sé, di trasferimento anima e corpo in un mondo irrimediabilmente diverso. L'ebbrezza che quel dio ispira non è solo quella del vino. Le Menadi, le sacerdotesse invasate che, dopo aver celebrato con canti e danze i sacri riti sul Citerone fanno zampillare attorno a sé fonti di vino, appunto, e di miele e allattano al proprio seno gli animali selvaggi, sono trasportate su un piano che non è chiaramente quello della nostra umanità. E comunque, il loro lasciarsi andare comporta più riferimenti di tipo sessuale di quanto già i greci potessero accettare, figurarsi noi.
    Da questo punto di vista, Penteo, il re di Tebe, che, diffidando di tutto ciò, proibisce i riti, ne perseguita gli adepti e vuole incarcerarne il promotore (ignaro, il meschino, di avere di fronte Dioniso in persona) sembrerebbe un personaggio molto euripideo: l'uomo razionale che si oppone a una tradizione oscura che induce a ogni sfrenatezza. Il guaio è che, come molti razionalisti euripidei, Penteo soccombe, perché l'oscurità e la sfrenatezza si rivelano più forti di lui, il che contrasta parecchio con l'immagine consueta di quell'autore, che di solito ci si presenta come ostinato seguace della ragione sofistica e indefesso fustigatore di ogni manifestazione d'irrazionalità, religiosa, sentimentale o d'altro tipo. Ma con i greci non si può mai dire e forse nel gioco di ombre finale in cui il re, travestito, va, per così dire, a caccia di Baccanti sul Citerone, ma si ritrova a essere da loro cacciato, il poeta tragico ha voluto semplicemente raffigurare un modello di comportamento in cui ciascuno è la vittima dei suoi propri autoinganni e ogni tentativo di spiegare la logica del proprio agire cozza contro i limiti delle conoscenze di cui ognuno dispone (o crede di disporre). In questo senso, Dioniso è il dio che mette in risalto le contraddizioni tragiche dell'esistenza, quelle da cui mai e poi mai ci si potrà liberare, e le Baccanti, che hanno dilaniato il povero Penteo credendo, nell'estasi orgiastica, di fare a pezzi una belva feroce (e tra di loro ci sono la madre e le sorelle stesse del re) ne sono soltanto delle altre vittime. Potete leggere il tutto, se vi pare, come un problema di coscienza di sé e delle proprie motivazioni e, quindi, come una questione di ideologia.
    O forse, naturalmente, mi sbaglio. È da tanto tempo che non riprendo in mano quel testo e, d'altronde, il teatro antico è così lontano da noi, nella sua impassibile enigmaticità, da permettere qualsiasi possibile rivisitazione, per cui non è affatto detto che quanti affollano in questi giorni il Teatro Puccini si vedano riproporre questo tipo di schema. Diremo, allora, che la triste storia di Penteo, quali che siano i significati che vi vogliamo annettere, ci insegna soprattutto a non essere troppo sicuri di noi, a diffidare dalle motivazioni che sottoponiamo, prima di tutti, a noi stessi. Non sarà forse una lezione trascendentale, ma basta guardarsi intorno per capire quanto ne abbiamo bisogno.
14.03.'10