Un argomento specioso, ma non troppo

La caccia | Trasmessa il: 11/18/2007


    Mi è sembrato curioso uno degli argomenti utilizzati, nel recente dibattito alla III Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dai rappresentanti di molti paesi del Terzo Mondo favorevoli al mantenimento della pena di morte. Hanno sostenuto, in sostanza, che la proposta di moratoria avanzata dalla Unione Europea altro non poteva considerarsi che una manifestazione di arroganza, una chiara espressione della volontà di imporre agli altri dei valori propri, la spia di un atteggiamento – in definitiva – di stampo colonialista. Insomma, vi hanno visto una specie di replica a livello diplomatico del Porqué no te callas con cui il Re di Spagna ha strapazzato, giorni fa, quell’indio rozzo e volgare che pretende, solo perché gode del consenso della maggioranza dei suoi connazionali, di governare il Venezuela. L’ambasciatore di Singapore, che è stato uno dei capifila di questa posizione, ha accusato senza mezza termini l’Europa di voler imporre la propria volontà. “Abbiamo già visto all’opera questa inclinazione europea prima d’oggi” ha aggiunto. “Un tempo le nostre opinioni erano ignorate e la maggior parte di noi ha dovuto lottare contro ciò. È ironico che ancora una volta ci sentiamo dire che solo una posizione è giusta e tutte le altre sbagliate”. La tesi è stata ripresa, tra gli altri, dall’ambasciatore del Botswana, secondo il quale gli europei soffrono di un tipico complesso di superiorità, perché credono che “il loro sistema politico, culturale e legale sia migliore di tutti gli altri.”
    L’argomento, in verità, appare specioso. O almeno speriamo, perché in caso contrario dovremmo credere che delle persone ragionevoli, investite, oltretutto, di una certa responsabilità a livello internazionale, siano davvero convinte che la dignità e l’autonomia culturale dei propri paesi dipenda dalla facoltà di accoppare a piacere i propri concittadini devianti. È verissimo che la cultura europea pecca spesso di arroganza, che l’eredità del colonialismo nel continente è tutt’altro che superata e che il re di Spagna, con rispetto parlando, avrebbe fatto meglio a tenere chiusa la bocca, ma tutto questo non c’entra molto con le polemiche sulla pena di morte. La nascita di quel dibattito precede di parecchio quella degli imperi coloniali, tanto è vero una prima proposta abolizionista, per quel che ne so, fu presentata già all’Assemblea Nazionale da Massimiliano Robespierre verso il 1790. L’istanza, com’è noto, risaliva alle teorizzazioni settecentesche dei Verri e dei Beccaria ed esprimeva, sulle orme soprattutto del pensiero del Rousseau, un sincero desiderio di liberazione per tutta l’umanità, in nome di quella ragione che si supponeva (e da parte di qualche ostinato tuttora si suppone) uguale in tutti gli esseri umani.
    Tuttavia, proprio qui sta il problema. La ragione è sicuramente una, ma le idee su che cosa vada considerato ragionevole possono legittimamente divergere. Non è necessario aver conosciuto l’Illuminismo per essere considerati “civili”, come dimostra la storia della Cina, né l’esperienza di quella scuola di pensiero rende automaticamente immuni dalla tentazione del capestro, come si evince dal caso degli Stati Uniti. E poi l’Europa, che l’Illuminismo lo ha inventato e che oggi, con buona pace dei vari Ratzinger, ne fa un caposaldo della propria identità, non può davvero considerarsi innocente. La pena di morte l’ha conosciuta e l’ha praticata per tutta la sua storia, respingendo con solerzia tutte le istanze in contrario (fu respinta anche quella di Robespierre, che in seguito, come è noto, avrebbe cambiato idea) e solo in questo secondo dopoguerra si è decisa, a malincuore, a espungerla dai propri ordinamenti. Anzi, in Gran Bretagna si è continuato ad adoperare il nodo scorsoio fino agli anni ’60 del secolo scorso, in Francia la ghigliottina è stata abolita formalmente da Mitterrand solo nel 1981 e l’Italia si è decisa a cancellare l’ipotesi dal codice militare di guerra appena un paio di anni fa. Sarà un caso, ma i paesi che più si sono impegnati nel dibattito all’ONU a favore dell’ammazzamento legale (Singapore, il Botswana, le repubbliche caraibiche…) appartengono, sì, al Terzo Mondo, ma sono tutti ex colonie inglesi, e anche se, in sostanza, agivano su delega degli Stati Uniti, che hanno preferito mantenere, per l’occasione, una politica di basso profilo, ma si sa cosa succede da quelle parti, hanno dato l’impressione di aver ereditato la fiducia nelle virtù salutifere della forca proprio dalla madrepatria, insieme alla guida a sinistra e alla passione per il cricket. Quella fiducia, peraltro, riemerge puntualmente nell’opinione pubblica dei nostri civilissimi paesi ogni volta che un fatto di cronaca scioccante, un delitto, uno stupro o qualche evento del genere, spinge una quantità di gente a invocare a gran voce il ritorno del boia. Se l’Unione Europea è arrivata nell’anno 2007 a presentare, non senza contrasti e difficoltà, una proposta di moratoria, non si può far altro che rallegrarsene, ma non è il caso di inorgoglirsene troppo. Abbiamo ancora molto da farci perdonare.
    E poi, se il rifiuto della pena di morte deve fondarsi su un generale atteggiamento di rispetto per la vita di tutti i cittadini da parte delle autorità e dei loro corpi organizzati, be’, almeno in Italia proprio non ci siamo. Sappiamo tutti che quanto è accaduto domenica scorsa in quell’area di servizio della A1 non è stato che il tragico replay di una lunga serqua di episodi simili, di troppi casi di inseguimenti e fermi ai posti di blocco in cui un colpo sparato, stando alle dichiarazioni ufficiali, per intimidazione o per errore, ha stroncato una vita. Il nostro paese si è persino dotato – unico, credo, in Europa – di una vergognosissima legge che garantisce, se non l’impunità, almeno un trattamento di riguardo ai protagonisti di simili fatti. E il giorno in cui, tanto per dire, il Botswana ci chiedesse di abolire la legge Reale che cosa risponderemmo?

    C. O.