Trecento milioni di prove

La caccia | Trasmessa il: 05/09/2010


    Strillo di “Repubblica” in prima pagina martedì 4 maggio: “'Scoperto' a New York un nuovo Michelangelo”. Il rilievo dato alla notizia, in verità, non sembra adeguato alla importanza dell'evento: siamo in prima pagina, sì, ma su una sola colonna, in taglio basso, e il fatto che la parola “Scoperto” sia scritta prudenzialmente tra virgolette può suscitare qualche dubbio. Tuttavia, a pagina 21, cui lo strillo rimanda, all'evento sono dedicate tutte le sei colonne disponibili, il che fa sperare che non di una delle solite bufale, così frequente nelle cronache che hanno a che fare con la storia dell'arte, si tratti.
    È subito chiaro, comunque, che non siamo di fronte a una vera “scoperta”. Il quadro in questione, un olio di grande formato raffigurante “La testimonianza di San Giovanni Battista”, fa parte fin dal 1970 delle collezioni del Metropolitan Museum. Solo che era attribuito, finora, a Francesco Granacci, anzi, alla “bottega di Francesco Granacci”, mentre adesso un esimio professor Everett Fahy, del dipartimento Capolavori della Pittura Europea, ha deciso che, invece, è di Michelangelo. La rivelazione, raccolta in America da “Art News” si potrà leggere presto anche in Italia su “Nuovi Studi” e consta di una relazione di 65 pagine, che elenca le prove che hanno convinto lo studioso a cambiare l'attribuzione. Non abbiamo a che fare, dunque, con un evento sensazionale, come la classica scoperta di un capolavoro dimenticato nella soffitta della nonna (a New York, d'altronde, non credo ci siano soffitte), siamo piuttosto nel campo, meno affascinante, dei dibattiti tra eruditi, ma, insomma, Michelangelo è sempre Michelangelo è un po' di emozione la suscita sempre. Leggiamo dunque con interesse.
    Uhm... Le prove addotte, in realtà, sembrano un po' deludenti. La scena è ambientata in quella che si direbbe (con un poco di buona volontà) una cava di marmo, uno scenario insolito, ma familiare al Buonarroti, che nel Carrarese andava spesso in cerca di blocchi da scolpire. Le analisi ai raggi X non rivelano, diversamente che in altre opere del Granacci, pitture e ripitture precedenti alla definitiva, cosa che rivelerebbe “la mano sicura di un maestro”. Uno dei due farisei che compaiono sulla sinistra somiglia a un disegno michelangiolesco in mostra al British Museum e la figura del Battista ne ricorda un altro del Louvre. La pittura è a olio, tecnica allora innovativa che il Granacci non usa altrove. La giovane donna sulla destra ha la stessa posa di una figura maschile nuda sullo sfondo del Tondo Doni. E, naturalmente, “la grande libertà con cui sono disposte le figure” non può non far venire in mente “quel tipico contrapposto che è lo stile di Michelangelo nella Cappella Sistina”. Sarà, ma se prove sono sono soltanto negative, o si riducono a semplici somiglianze, che potrebbero essere spiegate in mille modi diversi. Michelangelo e il Granacci, oltretutto, erano entrambi allievi del Ghirlandaio, nel cui atelier avevano lavorato insieme, e questo avrà ben significato qualcosa. Tanto è vero che altri studiosi meno entusiasti hanno fatto delle proposte riduttive: per esempio che i due, che anche in seguito sarebbero restati in contatto, potrebbero essersi dati una mano a vicenda. Si sa che il Granacci contribuì in qualche modo alla trasposizione in affresco dei cartoni della Sistina e Michelangelo può ben aver dato qualche pennellata di suo alle storie di San Giovanni del collega. Saremmo di fronte, così, a un esempio di collaborazione, fenomeno tutt'altro che infrequente nella pittura italiana di allora. Oppure le somiglianze potrebbero semplicemente testimoniare del comune clima culturale in cui i due artisti si erano formati.
    Non sono un esperto d'arte e non sono in grado di pronunciarmi. Per ora, stando all'articolo di “Repubblica”, l'ipotesi michelangiolesca resta un'ipotesi e la tavola del Metropolitan Museum conserva la sua attribuzione tradizionale, poi si vedrà. E la cosa, in fondo, non dovrebbe avere troppa importanza, perché il quadro, chiunque l'abbia dipinto, resta sempre quello che è e identica dovrebbe essere l'emozione artistica che trasmette a chi lo contempla. Per lo meno nei limiti in cui una qualche emozione artistica possa essere trasmessa al visitatore di un grande museo affollato di capolavori: io, per esempio, il Metropolitan Museum l'ho visitato, e dopo il 1970, per cui quella “Testimonianza del Battista” l'avrò vista senz'altro, ma non ricordo di esserne stato particolarmente colpito. Anzi, per essere proprio sincero, non la ricordo affatto. Magari, se ci fosse stato scritto che era di Michelangelo ci avrei prestato maggiore attenzione, ma non mi sembra che un'attribuzione più prestigiosa possa migliorare la qualità estetica di un dipinto.
    Tuttavia... tuttavia un certo tipo di miglioramento lo provocherebbe senz'altro. L'opera, informa il “New York Post”, è stata a suo tempo acquistata a un'asta di Sotheby's, a Londra, per la modica cifra di150.000 dollari, ma se fosse, pur se solo in parte, del Buonarroti non ne varrebbe meno di trecento milioni. Anche questa è un'assurdità, naturalmente, ma è in linea con le regole misteriose che presiedono al mercato delle opere d'arte. Che il valore di scambio possa essere affatto indipendente da quello d'uso (ammesso che per un quadro di valore d'uso si possa parlare) è sicuramente un'assurdità, ma una di quelle assurdità di cui il mercato in regime capitalista si nutre. L'arte dovrebbe essere al di sopra di certe bassezze, ma ha anch'essa un mercato, in cui, normalmente, è proprio la firma (o l'attribuzione) a fare il prezzo. E proprio come succede nel mercato dei titoli finanziari, il giudizio di valore si identifica con la determinazione del prezzo stesso. Il critico, in questa veste, agisce esattamente come il funzionario dell'agenzia di rating, il cui giudizio in teoria è a posteriori (riguarda i titoli così come sono), ma in pratica ne determina a priori il valore monetario. Una bella responsabilità, in un certo senso, viste le cifre in ballo. Ma anche, nel nostro caso, un forte incentivo a sciogliere la questione in un senso piuttosto che in un altro. Le prove addotte dal professor Fahy possono apparire un po' vaghe, ma se ci aggiungiamo il peso di trecento milioni di dollari (due milioni ottocentocinquantamila, se vogliamo scontare il prezzo originario) diventano straordinariamente solide. Vedremo come andrà a finire, ma, se dovessi scommettere, io sul Granacci non azzarderei un soldo bucato.

    09.05.'10