Trasferimenti

La caccia | Trasmessa il: 11/29/2009


    Mi sono tornate alla mente, nel leggere in questi giorni delle polemiche sul previsto trasferimento dell'Accademia di Brera all'ex caserma di via Mascheroni, le pagine che a Brera dedicava, quasi quarant'anni fa, Luciano Bianciardi nella Vita agra. Erano, come si confaceva a quello scrittore, pagine piene d'ironia, ma non prive di una certa affettuosità, che descrivevano in pochi tratti quello che allora era il quartiere degli artisti e degli intellettuali bohémiens. Ma non solo loro, naturalmente, perché in quelle vie Bianciardi incontrava tanta altra gente: i frequentatori della biblioteca, i giocatori di pelota, gli artigiani dei negozietti, gli impiegati dell'Archivio di Stato e, sopratutto, gli alunni, come scriveva lui, della “scuola delle belle arti”: “lunghi, capelluti e dinoccolati, e le ragazze col montgomeri verde e rosso, una gran cartella sotto il braccio e la chioma legata a coda di cavallo sulla nuca” che “le vedevi sostare accanto a una colonna, indugiare sul portale, tante macchie di colore con sullo sfondo l'abside della vecchia chiesa, ferrigno e verde di rampicanti, dall'altra parte della strada”. Si capiva che quelle due o tre strade erano state il teatro della prima, intensa incursione dell'autore nella realtà milanese e che per lui rappresentavano, nei limiti in cui gli era possibile averne una, una sorta di patria spirituale. Io, che, qualche anno dopo, ho avuto modo di intravedere le ultime fasi di quella stagione – preparavo la tesi di laurea e frequentavo la biblioteca dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, in un cortile minore del palazzo della Braidense – ne ricordo ancora la vivacità, anzi, la vitalità tutta milanese che le animava. Non erano più gli anni della bohème, naturalmente, lo sferisterio stava per chiudere, i prezzi erano saliti e al Jamaica all'ora dell'aperitivo si affollavano più ex studenti del Parini che artisti (il che, tra parentesi, in futuro mi avrebbe sconsigliato di frequentare quel celebre bar), ma qualcosa dell'antica atmosfera, in un modo o nell'altro, restava.
    Oggi, tutto questo appartiene a un'altra epoca. Su quella ruvida vitalità è passata inesorabile la pialla della Milano bene. Brera è un quartiere alla moda, in cui può vivere solo chi dispone di censo adeguato e in cui gli estranei sono ammessi soltanto per celebrare il rito della movida e della happy hour. A parte qualche raro turista diretto alla pinacoteca, l'occhio si confonde sulle orde di fighetti e fighettone in tutto simili a quelli che infestano il Sempione e i Navigli. Brava gente, probabilmente, e forse più sveglia dal punto di vista intellettuale di quanto non dia a vedere – almeno spero, perché esteriormente sembrano tutti dei perfetti ebeti – ma non oso supporre cosa avrebbe pensato (e detto) di loro Bianciardi.
    Restano, restavano gli studenti. Magari non sono più tutti lunghi, capelluti e dinoccolati, le studentesse non indossano più il montgomery né si legano i capelli a coda di cavallo, nell'insieme, anzi, rappresentano una fauna zoosociologica piuttosto diversa, ma, almeno di giorno, ci sono. E a qualcuno devono dare un bel fastidio, visto che si stanno dando tanto da fare per mandarli via.
    Perché non bisogna credere a tutto quello che dicono. La versione ufficiale, si sa, vuole che la separazione tra Pinacoteca e Accademia, con conseguente trasferimento di quest'ultima in zona Fiera, sia dovuta a ragioni di spazio. Entrambe le istituzioni, si dice, soffrono della ristrettezza delle reciproche sedi. Il museo non può esporre tutti i suoi quadri, né dotarsi degli accessori di cui oggi nessun museo rispettabile può fare a meno, tipo il negozio, la caffetteria e le vasche Jacuzzi, e la scuola ha bisogno di altre aule e altri spazi per la didattica. Sarà vero, non si discute, ma che, a dispetto di tutto ciò, una Pinacoteca e un'Accademia di Belle Arti non potrebbero che trarre vantaggio dal restare in simbiosi non sembra un'idea degna di essere presa in considerazione. E il trasloco, dicono tutti con commuovente unanimità, dalla Moratti a Larussa, si farà quanto prima.
    Eppure si potrebbe fare altrimenti. Da decenni si parla di un allargamento delle raccolte d'arte all'adiacente Palazzo Citterio e la scuola potrebbe trovare una sede degna nel dirimpettaio Palazzo Cusani, se solo si riuscisse a sloggiarne il Comando del Corpo d'Armata, che lo lascia in gran parte inutilizzato ed è vero che sfrattare i militari non è impresa facile, ma non sarà, Dio santo, impossibile. Ma non è questo il problema. Il problema è che nella Milano di oggi, in questa specie di coacervo tra il supermarket, la boutique e la casa di tolleranza (c'erano anche quelle, in zona, ma credo le avessero chiuse già ai tempi di Bianciardi) la cultura non ha posto, tranne che in periferia. Perché quegli spazi nell'area teresiana valgono troppo per non monetizzarli quanto più in fretta possibile. Sfrattare la Pinacoteca non si può, anche se sicuramente c'è qualcuno che soffre pensando a quanto ci si lucrerebbe facendo dell'ex convento dei Gesuiti una sede di eventi o uno spazio di sfilate, e poi i musei, nella concezione moderna, possono ben essere visti come una fonte di reddito. Sfrattare l'Accademia... be', è tutta un'altra cosa. Si può fare e, state sicuri, si farà. Una scuola d'arte costa e non assicura ritorni immediati: non può pretendere di occupare un palazzo del centro. Via Mascheroni è già troppo.
    A Brera è già tanto che nessuno abbia proposto di riaprire i casini.
    29.11.'09



    Nota

    La citazione da La vita agra di Luciano Bianciardi (1963) è a pag. 13 della edizione Bompiani, “I grandi tascabili”, 1995.