Trappole

La caccia | Trasmessa il: 12/06/1998



pero abbiate notato come praticamente tutti coloro che si sono occupati della strana faccenda di Abdullah Ocalan su una cosa, nella diversità dei giudizi e delle valutazioni, si siano trovati d’accordo: nell’affermare che il nostro governo, permettendo al leader curdo di mettere piede nel nostro paese, è caduto, meschinello, in una vera e propria trappola.  Su chi l’abbia tesa, se i curdi, i russi, i tedeschi, i servizi segreti, gli onorevoli Bertinotti e Mantovani o chi altri le opinioni sono diverse; sul perché D’Alema e i suoi ci si siano lasciati invischiare, se per inesperienza, per inettitudine o per volontà di attenersi rigidamente alle prescrizioni di legge, ciascuno è libero di dire la sua, ma che trappola ci sia stata non ci piove. Tanto è vero che il problema, per tutti, oggi è soltanto quello di come uscirne: rispedendo Ocalan al mittente (ammesso che un mittente si riesca a individuare), o, se proprio rispedirlo non fosse possibile, mettendolo sotto chiave e buttando via la medesima, dopo un opportuno processo per terrorismo, che potrebbe svolgersi direttamente di fronte alla nostra magistratura – nella quale, in effetti, allignano magistrati bravissimi a ridurre alla categoria del terrorismo qualsiasi contrasto politico radicale – o davanti a un’apposita Corte di Giustizia internazionale che, Dio solo sa in base a quale mandato, ci si propone di istituire.  L’imperativo categorico, in ogni caso, resta solo uno: liberarsi di quello che, nonostante le sue evidenti caratteristiche di leader politico ed essere umano si è ormai ridotto al ruolo, certamente meno problematico, di “patata bollente”.
        Personalmente io non sono un esperto della questione curda (anche se qualcosa, in merito, credo di aver letto) e non saprei certo rispondere ai problemi che, a quanto pare, interessano i più: se Ocalan e il suo PKK siano abilitati a rappresentare davvero il loro popolo (ma non vedo perché negarglielo, visto che non pretendono l’esclusività) e se, nella conduzione della guerra contro i loro oppressori siano ricorsi o meno a metodi particolarmente censurabili.  Suppongo che di azioni degne di censura ce ne siano state a iosa, anche perché sono convinto che è difficile combattere una guerra qualsiasi senza commettere ogni sorta di puttanate.   Ma che Abdullah Ocalan sia, in ogni caso, un cittadino straniero cui è impedito, nel suo paese, “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, che è l’unica condizione cui la Costituzione stessa subordina la concessione dell’asilo politico a chi lo richieda, mi sembra non si possa in alcun modo negare.  E visto che quello di asilo è un suo diritto, e lui ne ha chiesto l’applicazione non vedo proprio come glielo si possa rifiutare.  Poi, naturalmente, si potrà decidere se convenga o meno al nostro governo appoggiare le proposte politiche del PKK e, nel caso che il suo leader venga accusato di specifici reati per cui sia competente la magistratura italiana, lo si potrà, anzi, lo si dovrà processare.  Ma questi due problemi, la cui gravità mi guardo bene dal sottovalutare, con la questione dell’asilo politico non c’entrano proprio niente.
        Sarà per questo, forse, che il Ministro dell’Interno, che Dio la perdoni, ha avuto il coraggio di dichiarare, martedì scorso, che il motivo per cui il problema non è stato ancora affrontato è di natura essenzialmente burocratica, non avendo il richiedente compilato i moduli necessari né presentato la documentazione prescritta.  Dichiarazione che ha fatto ridere molti, ma che dovrebbe, naturalmente, farci piangere tutti, soprattutto in considerazione del fatto che, nell’eterno contrasto tra volontà politica e renitenza amministrativa che caratterizza la nostra storia repubblicana, il costante trionfo della seconda è stato sempre determinato dalla volontà dei detentori del potere di eludere la prima.  Richiedere “le carte”, impuntarsi sui vizi di forma e sulle lacune di documentazione, anche quando ogni documentazione è impossibile (perché come diavolo fa qualcuno a dimostrare di essere oppresso?  Presentando un certificato dell’oppressore?)  è un modo caratteristico della nostra classe dirigente di sottrarsi ai propri obblighi, quelli di legge compresi.  Provate a fare un giro di controllo per i commissariati davanti a cui si accalcano, in questi giorni, quei disgraziati che aspirano alla “sanatoria” per potere contribuire legalmente a produrre la nostra ricchezza e vedrete.
        Naturalmente non è questo il caso di Ocalan.  Per lui le necessità burocratiche sono solo una scusa.  Ma non mi stupirei se, a questo punto, lo sciagurato non cominciasse a chiedersi se in trappola, per caso, non sia finito lui.

06.12.’98