pero abbiate notato come praticamente
tutti coloro che si sono occupati della strana faccenda di Abdullah Ocalan
su una cosa, nella diversità dei giudizi e delle valutazioni, si siano
trovati d’accordo: nell’affermare che il nostro governo, permettendo
al leader curdo di mettere piede nel nostro paese, è caduto, meschinello,
in una vera e propria trappola. Su chi l’abbia tesa, se i curdi,
i russi, i tedeschi, i servizi segreti, gli onorevoli Bertinotti e Mantovani
o chi altri le opinioni sono diverse; sul perché D’Alema e i suoi ci si
siano lasciati invischiare, se per inesperienza, per inettitudine o per
volontà di attenersi rigidamente alle prescrizioni di legge, ciascuno è
libero di dire la sua, ma che trappola ci sia stata non ci piove. Tanto
è vero che il problema, per tutti, oggi è soltanto quello di come uscirne:
rispedendo Ocalan al mittente (ammesso che un mittente si riesca a individuare),
o, se proprio rispedirlo non fosse possibile, mettendolo sotto chiave e
buttando via la medesima, dopo un opportuno processo per terrorismo, che
potrebbe svolgersi direttamente di fronte alla nostra magistratura – nella
quale, in effetti, allignano magistrati bravissimi a ridurre alla categoria
del terrorismo qualsiasi contrasto politico radicale – o davanti a un’apposita
Corte di Giustizia internazionale che, Dio solo sa in base a quale mandato,
ci si propone di istituire. L’imperativo categorico, in ogni caso,
resta solo uno: liberarsi di quello che, nonostante le sue evidenti caratteristiche
di leader politico ed essere umano si è ormai ridotto al ruolo, certamente
meno problematico, di “patata bollente”.
Personalmente
io non sono un esperto della questione curda (anche se qualcosa, in merito,
credo di aver letto) e non saprei certo rispondere ai problemi che, a quanto
pare, interessano i più: se Ocalan e il suo PKK siano abilitati a rappresentare
davvero il loro popolo (ma non vedo perché negarglielo, visto che non pretendono
l’esclusività) e se, nella conduzione della guerra contro i loro oppressori
siano ricorsi o meno a metodi particolarmente censurabili. Suppongo
che di azioni degne di censura ce ne siano state a iosa, anche perché sono
convinto che è difficile combattere una guerra qualsiasi senza commettere
ogni sorta di puttanate. Ma che Abdullah Ocalan sia, in ogni caso,
un cittadino straniero cui è impedito, nel suo paese, “l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, che
è l’unica condizione cui la Costituzione stessa subordina la concessione
dell’asilo politico a chi lo richieda, mi sembra non si possa in alcun
modo negare. E visto che quello di asilo è un suo diritto, e lui
ne ha chiesto l’applicazione non vedo proprio come glielo si possa rifiutare.
Poi, naturalmente, si potrà decidere se convenga o meno al nostro
governo appoggiare le proposte politiche del PKK e, nel caso che il suo
leader venga accusato di specifici reati per cui sia competente la magistratura
italiana, lo si potrà, anzi, lo si dovrà processare. Ma questi due
problemi, la cui gravità mi guardo bene dal sottovalutare, con la questione
dell’asilo politico non c’entrano proprio niente.
Sarà
per questo, forse, che il Ministro dell’Interno, che Dio la perdoni, ha
avuto il coraggio di dichiarare, martedì scorso, che il motivo per cui
il problema non è stato ancora affrontato è di natura essenzialmente burocratica,
non avendo il richiedente compilato i moduli necessari né presentato la
documentazione prescritta. Dichiarazione che ha fatto ridere molti,
ma che dovrebbe, naturalmente, farci piangere tutti, soprattutto in considerazione
del fatto che, nell’eterno contrasto tra volontà politica e renitenza
amministrativa che caratterizza la nostra storia repubblicana, il costante
trionfo della seconda è stato sempre determinato dalla volontà dei detentori
del potere di eludere la prima. Richiedere “le carte”, impuntarsi
sui vizi di forma e sulle lacune di documentazione, anche quando ogni documentazione
è impossibile (perché come diavolo fa qualcuno a dimostrare di essere oppresso?
Presentando un certificato dell’oppressore?) è un modo caratteristico
della nostra classe dirigente di sottrarsi ai propri obblighi, quelli di
legge compresi. Provate a fare un giro di controllo per i commissariati
davanti a cui si accalcano, in questi giorni, quei disgraziati che aspirano
alla “sanatoria” per potere contribuire legalmente a produrre la nostra
ricchezza e vedrete.
Naturalmente
non è questo il caso di Ocalan. Per lui le necessità burocratiche
sono solo una scusa. Ma non mi stupirei se, a questo punto, lo sciagurato
non cominciasse a chiedersi se in trappola, per caso, non sia finito lui.
06.12.’98