Trame di vecchi romanzi

La caccia | Trasmessa il: 04/15/2007



    Mi è capitato in questi giorni di rileggere, per puro caso, uno dei romanzi che Ross Thomas, eminente giallista del secolo scorso, pubblicava una trentina di anni fa sotto lo pseudonimo di Oliver Bleeks: in Italia allora ne sono usciti tre, uno nei Gialli Mondadori e due negli “occhietti” Garzanti, ed è da allora che aspetto che qualche editore un po’ sveglio si decida a completare la serie. Sono storie, credetemi, davvero di gran classe, incentrate sulla figura di tale Philip St. Ives, ex giornalista newyorkese dall’atteggiamento vagamente hippy, che è finito, non sa bene nemmeno lui come, a esercitare la professione di intermediario con la malavita. Niente di straordinario, eh, ma quando sparisce qualche oggetto di valore, che so, la prima edizione a stampa di Plinio il Vecchio, o una preziosa spada medioevale, o semplicemente la raccolta completa dei diari su cui un rinomato svaligiatore ha descritto tecniche e particolari dei suoi colpi, può essere conveniente per gli orbati proprietari ricomprarselo direttamente dai ladri, come può convenire ai ladri rivenderlo direttamente a loro, e in questi casi c’è bisogno di qualcuno che, grazie ai buoni rapporti che intrattiene con ambo i versanti della legge, provveda alle trattative, al pagamento e allo scambio e anche se non lo vediamo mai in quella funzione, St. Ives ci assicura di essersi occupato con successo persino del riscatto di ostaggi in carne e ossa.
    Naturalmente non è tutto così semplice. Gli scambi cui il nostro intermediario attende tra un romanzo e l’altro filano sempre lisci, ma in quelli di cui Thomas tratta ex professo la necessità di articolare la vicenda introduce sempre qualche complicazione. Può essere una delle parti, che, per malanimo, avidità o altro, non sta ai patti e cerca di arraffare la grana senza restituire il maltolto, può essere l’autorità costituita che, per motivi suoi, decide di sospendere l’implicita neutralità prevista in casi del genere e interviene in corso d’opera causando un sacco di guai o può essere anche l’altra parte, quella dei proprietari legittimi, che a un certo punto capisce che è meglio mollare tutto a mezza via, a costo di lasciare il suo uomo, come si dice, in braghe di tela. In ogni caso, per risolvere il pasticcio ci vuole sempre tutto l’impegno del personaggio e tutta l’ingegnosità dell’autore, che non per niente è uno dei più grandi creatori di intrighi dell’intera storia del mystery.
    I romanzi, naturalmente, sono solo romanzi. Ma nessuno mi toglie dalla testa che se alle mie stesse letture si fossero dedicati, tanto per dire, D’Alema o Gino Strada (o entrambi), la vicenda del rapimento di Daniele Mastrogiacomo non si sarebbe conclusa con il disastro con cui si è conclusa. Perché in questo caso si sono verificate tutte e tre le occorrenze negative di cui vi dicevo: la parte dei rapitori non ha mantenuto i patti, alzando la posta e liberando solo un ostaggio su due, l’autorità costituita, che in Afghanistan credo si possa identificare nel comando americano, che agisce direttamente attraverso i servizi segreti saltando a piè pari il locale governo fantoccio, è intervenuta sequestrando a sua volta l’intermediario e la parte “legittima”, come a dire il nostro scalcagnato governo, si è piegata di buon grado alla prepotenza abbandonando alla sua sorte quel Ramhatullah Hanefi cui, su indicazione di Emergency, si era affidato.
    Questo ultimo gesto, non c’è bisogno di sottolinearlo, è moralmente il più abietto. Perché ciascuno fa il suo mestiere, naturalmente: i talebani si sono adeguati al ruolo che viene loro assegnato e sarebbe curioso aspettarsi da terroristi mossi solo dall’odio il rispetto dei patti convenuti. Gli americani hanno agito a mente fredda con il fine di rendere impossibili in futuro quegli scambi cui sono contrari e si sa che non c’è metodo più sicuro per impedire qualsiasi trattativa che far capire che, a cose fatte, i mediatori finiranno in galera. Anche qui da noi, anni fa, ai tempi del sequestro Moro, chi si offrì come intermediario fu immediatamente arrestato con le accuse più futili, garantendo che si realizzasse l’obiettivo cui buona parte della classe politica implicitamente mirava, cioè che l’ostaggio non sopravvivesse. Ma sappiamo tutti che non c’era nessun motivo, proprio nessuno, per cui il governo italiano dovesse scaricare il povero Hanefi, reo di avere portato a buon fine l’incarico ricevuto (un incarico che presupponeva ab origine l’esistenza di qualche suo contatto con i talebani, se no perché affidarlo a lui?) e finito a fare, come da copione, il capro espiatorio. Ma quella di nascondere la mano subito dopo aver lanciato il sasso (o anche prima) è una caratteristica del costume nazionale: mi sembra che rientrasse già nei giudizi sugli italiani espressi dal cavalier de La Motte e dai suoi amici ai tempi della disfida di Barletta.
    Ma l’italiano infido della tradizione è anche un italiano astuto e machiavellico che, sia pure attraverso modalità deprecabili, raggiunge i suoi fini. L’italiano infido in versione Prodi D’Alema – invece – è una sorta di beccaccione che si fa mettere nel sacco da tutti, dai tagliagole afgani e da quelli americani, dai nemici come dagli alleati, e non dispone neanche del minimo di dignità necessario per riconoscerlo. E pazienza se dovesse affrontare problemi complicati e situazioni insolubili, ma la situazione in cui ci siamo arenati è talmente banale, come abbiamo visto, da essere stata sfruttata nei romanzi popolari del XIX e del XX secolo, senza che, peraltro, saltasse fuori un Philip St. Ives a tirarci fuori dai guai o un Ettore Fieramosca a restituirci l’onore perduto. Questi nostri governanti sono come i ragazzini delle medie: non leggono. Passano troppo tempo di fronte alla televisione.

    15.04.’07