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La caccia | Trasmessa il: 04/08/2001



Ricordo che quando, tantissimi anni fa, avevo incontrato per la prima volta i romanzi di Raymond Chandler, ero restato affascinato, tra l’altro, dalla ricetta del cocktail che Philip Marlowe era solito bere, nei loro fuggevoli incontri pomeridiani in qualche tranquillo bar fuori mano, con Terry Lennox, l’amico che, alla fine, lo avrebbe tradito.  Si chiamava – il cocktail, dico – “succhiello” ed era composto, stando al testo in mie mani, da un cinquanta e cinquanta di gin e sciroppo di cedro, con uno schizzo facoltativo di amaro.  Non mi intendevo affatto di cocktail, ma quella mistura di dolce, amaro e secco mi sembrava interessante e mi sarebbe piaciuto bere qualcosa del genere con un amico in un tranquillo bar fuori mano, anche a rischio di scoprire, come il povero Marlowe, che quell’amico, dopo tutto, non era così disinteressato come sembrava.   Ma di bar che preparassero cocktail non ne conoscevo (forse, a Milano, ce ne saranno stati due o tre) e i miei tentativi di applicare in proprio quella ricetta producevano invariabilmente dei beveroni talmente dolci da stomacare, non che un romantico investigatore privato, un rinoceronte dai gusti appena coltivati.  Dopo varie esperienze non propriamente gradevoli, ero arrivato alla conclusione che gli ingredienti di cui disponevo non fossero, per un motivo o per l’altro, paragonabili a quelli in uso in California – in effetti, come avrei scoperto molto più tardi, leggendo gli originali, lo “sciroppo di cedro” avrebbe dovuto essere del lime cordial, che è tutt’altra cosa, e per lo schizzo sarebbe stato assai più opportuno ricorrere, più che all’amaro, all’angostura bitter, che nel nostro paese era affatto sconosciuto –  e che non valeva la pena di insistere.   Ma devo ammettere che per anni l’idea di un succhiello (di un gimlet, nell’originale) mi ha variamente allettato, entrando a far parte, a pieno titolo, del mio immaginario alcolico e letterario.  Il nome, certo, poteva suonare un po’ strano, ma il succhiello, in fondo, è un qualcosa di acuto e di penetrante, come l’intelligenza di un grande investigatore ed era fin troppo ovvio che un detective in gamba come Marlowe non bevesse nient’altro.  Anzi, ero arrivato a concludere che la scelta di quel nome fosse stata, da parte dell’autore, una raffinatezza voluta, una strizzatina d’occhio rivolta a quei pochi lettori abbastanza perspicaci, come me, per afferrarne il senso riposto.
        Ahimè.  Scopro oggi in un vecchio numero dell’Espresso che anche questa era un’illusione.  Il gimlet, che figura, con gli stessi ingredienti, sia pure in proporzioni diverse, nell’elenco ufficiale delle ricette dell’International Bartender Association, deve il suo nome a quello del suo inventore, tale T. O. Gimlette, ufficiale medico della regia marina britannica verso la fine del diciannovesimo secolo, un personaggio di cui oggi non si sa molto, ma che ai suoi tempi ebbe una certa fama, al punto da conseguire, non so per meriti alcolici o sanitari, il titolo di baronetto.  Il traduttore del Lungo addio, evidentemente, era affatto ignorante in materia di cocktail e aveva reagito alla sfida del testo come aveva potuto.  Vocabolario alla mano, aveva fatto del gimlet un succhiello, secondo la stessa logica con cui aveva trasformato il lime cordial in sciroppo di cedro e il bitter in amaro.  Questo significava, in ultima analisi, fornire ai destinatari del suo lavoro delle informazioni totalmente ingannevoli, ma la narrativa è narrativa e in narrativa non esiste un’informazione abbastanza sbagliata da non essere sanabile in qualche modo con un po’ di lavorio mentale da parte dei lettori.
        Il tutto, naturalmente, conferma una verità ben nota agli addetti ai lavori.  Per tradurre non è necessaria una gran conoscenza della lingua di entrata e non basta, anche se è indispensabile, saper dominare la lingua di uscita.  Il problema, assai più spinoso, è quello di condividere la cultura dell’autore, di saper decifrare le sue allusioni e di cogliere il senso dei suoi riferimenti, anche i più casuali, perché si può leggere l’inglese come se fosse la propria lingua madre e scrivere un italiano degno delle lodi dei puristi della Crusca, ma si può sempre scivolare di brutto sulla ricetta e sul nome di un cocktail.  È un’impresa, a ben pensarci, da far tremare le vene e i polsi e, in effetti, se oggi ripenso alle venti o trenta opere di narrativa e saggistica che portano la mia firma di traduttore, mi sorprendo a chiedermi a quali immani bestialità posso essermi lasciato andare senza essermene nemmeno accorto.   Se ve ne capitasse sott’occhio qualcuna, vi prego, non fatemelo sapere.

C. Oliva, 08.04.’01