Strane cose si scoprono, a volte, sui
giornali. Domenica scorsa, per esempio, ho appreso da “Repubblica”
che, d’ora in poi, le iscrizioni al liceo classico “Berchet” si potranno
lasciare in eredità. Lo si apprende da un titolo a tre colonne in
taglio basso in prima pagina locale che assicura “Un posto al Berchet
in eredità”. L’occhiello specifica, un po’ vagamente, che, incombendo
quest’anno troppe iscrizioni, l’istituto “favorirà i parenti degli ex
studenti”.
Be’,
capirete anche voi che la notizia mi ha interessato. Al “Berchet”
ci sono andato anch’io, anni fa, e fa piacere scoprire, così, di punto
in bianco, di avere qualcosa da lasciare in eredità. Ai miei congiunti
non potrò forse assicurare beni immobili o conti in banca cospicui, ma
un posto garantito al liceo almeno sì. È già qualcosa. Spiace
vedere un istituto caratterizzato da un’antica tradizione democratica
adottare delle procedure dal vago sentore feudale, ma, insomma, sappiamo
che così va il mondo.
Poi,
naturalmente, uno legge l’articolo e capisce che non è vero niente. Tutto
si riduce al fatto che, tra i criteri stabiliti dal consiglio d’istituto
per scremare le domande di iscrizione, oltre a quelli relativi al merito
scolastico, alla scelta della lingua straniera e alla residenza in zona,
rientra la possibilità di vantare un fratello già iscritto al “Berchet”,
o che lo sia stato negli ultimi dieci anni. Il preside, che sembra
persona ragionevole, ben diverso da certi autocrati pseudo-manageriali
che hanno occupato, negli anni, il suo posto, ha spiegato ai giornali che
non c’è, in quella delibera, alcuna volontà di preselezionare il corpo
studentesco, ma che si tratta di una pura ragione di spazio. Capirete,
le quarte ginnasio sono già dieci e tutti gli aspiranti, nel vecchio edificio
di via Commenda, proprio non ci starebbero.
Niente
da eccepire, dunque. Ma un po’ fa pensare questa aspirazione diffusa
ad andare al “Berchet”. I miei genitori all’epoca, lo avevano
scelto per il motivo, semplicissimo, che era il classico più vicino a casa,
l’unico raggiungibile a piedi, e in seguito, dopo l’esplosione della
scolarità negli anni ‘60, quel criterio era stato in un certo modo ufficializzato,
con la suddivisione della città in rigidi “bacini di utenza”. Adesso,
evidentemente, le cose sono cambiate. E anche se mi par ovvio che
in molti ambiscano a una scuola in cui, oltre a me, ha studiato – apprendo
sempre da “Repubblica” – Luchino Visconti, e senza minimimamente
volerne negare i meriti (ho sempre sostenuto a spada tratta il “Berchet”
nell’annosa diatriba che lo oppone al “Parini”, con cui pure ho avuto
a che fare), le motivazioni di tanto appeal mi sembrano richiedere qualche
riflessione.
Certo, riesco a comprendere i motivi
che spingono tanta brava gente a voler indirizzare la prole al liceo classico,
perché quel tipo di istituto, per quanto arcaico sia il suo piano di studi
e vaga la relativa vocazione professionale, gode di un prestigio sociale
inossidabile e di una certa polverosa funzionalità didattica. In
fondo, se lo studio del latino non insegna certo a ragionare più di quello
di qualsiasi lingua altra, resta vero che quell’erede legittimo del Realgiymnasium
tedesco rappresenta, comunque, il modello da cui sono stati derivati tutti
gli altri. E visto che alla derivazione si è proceduto, in genere,
con il metodo caro a Procuste del taglia qui e aggiungi là, è presumibile
che l’originale funzioni meglio delle imitazioni. Ma ho abbastanza
pratica di insegnamento per sapere che non esistono, nell’ambito di uno
stesso ordine, scuole veramente “migliori” . Anche nell’istituto
più rinomato è facilissimo finire in una classe che, per un motivo o per
l’altro, fa schifo, alla mercé di professori deplorevoli (e naturalmente
viceversa). Le pratiche su cui ci si accanisce da decenni per
impostare la didattica a livello di istituto, socializzandone, le caratteristiche
e la qualità, restano empiriche e, il più delle volte, solo formali.
La vera motivazione, naturalmente, sta
altrove. Così, ai miei tempi, il “Berchet”, istituto, nel contesto
di allora, non proprio centrale, frequentato com’era, tra gli altri, da
studenti del Corvetto, del Vigentino, di Rogoredo, persino di Lodi e di
Melegnano, era considerato quasi automaticamente di serie B rispetto a
quelli cui affluivano i nobili rampolli di via Fatebenefratelli, di via
Cappuccio o di via del Gesù. Era un giudizio che con il merito didattico
non aveva, ovviamente, che fare, ma reggeva benissimo. Certi miei
quasi coetanei che hanno fatto il “Parini” e magari poi si sono distinti
nel ’68, sono convinti ancor oggi che in via della Commenda finissero
esclusivamente quanti non riuscivano a soddisfare gli standard intellettuali
richiesti in via Goito. Ma oggi, naturalmente, la tipologia urbana
delle classi e delle vie è cambiata e nulla vieta che anche il mio vecchio
liceo sia considerato una “scuola bene” e quindi, per antonomasia, una
“buona scuola”. E confesso che un po’ mi dispiace.
Il fatto è che il modello di una scuola
organizzata a più livelli qualitativi non appartiene alla tradizione dell’istruzione
pubblica, come l’ho conosciuta io (e, suppongo, voi). È tipico,
anzi, di un sistema educativo fondato sulla scuola privata. Anche
lì, naturalmente, il prestigio sociale non coincide di necessità con l’eccellenza
didattica, ma, visto che la scelta del livello si paga in contanti, il
problema è irrilevante. Nella società del denaro, è noto, tutto vale
per quello che costa e nulla costa per quello che vale. Ed è a quel
mondo, al mondo delle public schools britanniche o dei colleges americani,
che appartiene la prassi delle iscrizioni ereditarie, dei posti riservati,
per generazioni, ai membri delle famiglie importanti. Ma appunto.
Della tradizione dell’istruzione pubblica, dell’ideale di un’educazione
al più alto livello possibile gratuita e aperta a tutti, oggi, in Italia
non interessa niente a nessuno. È roba vecchia, il residuo obsoleto
di un progetto sociale e di un quadro valori che, a destra e a sinistra,
si lavora alacremente a smantellare. E in attesa che la Moratti,
o chi per lei, risolva il problema stabilendo che per accedere agli istituti
più noti bisogna sborsare una retta adeguata (non ci vorrà tanto, vedrete)
al “Berchet” possono divertirsi facendo finta di essere a Eton.
18.01.’04