Titoli ereditari

La caccia | Trasmessa il: 01/18/2004



Strane cose si scoprono, a volte, sui giornali.  Domenica scorsa, per esempio, ho appreso da “Repubblica” che, d’ora in poi, le iscrizioni al liceo classico “Berchet” si potranno lasciare in eredità.  Lo si apprende da un titolo a tre colonne in taglio basso in prima pagina locale che assicura  “Un posto al Berchet in eredità”.  L’occhiello specifica, un po’ vagamente, che, incombendo quest’anno troppe iscrizioni, l’istituto “favorirà i parenti degli ex studenti”.
        Be’, capirete anche voi che la notizia mi ha interessato.  Al “Berchet” ci sono andato anch’io, anni fa, e fa piacere scoprire, così, di punto in bianco, di avere qualcosa da lasciare in eredità.  Ai miei congiunti non potrò forse assicurare beni immobili o conti in banca cospicui, ma un posto garantito al liceo almeno sì.  È già qualcosa.   Spiace vedere un istituto caratterizzato da un’antica tradizione democratica adottare delle procedure dal vago sentore feudale, ma, insomma, sappiamo che così va il mondo.
        Poi, naturalmente, uno legge l’articolo e capisce che non è vero niente.  Tutto si riduce al fatto che, tra i criteri stabiliti dal consiglio d’istituto per scremare le domande di iscrizione, oltre a quelli relativi al merito scolastico, alla scelta della lingua straniera e alla residenza in zona, rientra la possibilità di vantare un fratello già iscritto al “Berchet”, o che lo sia stato negli ultimi dieci anni.  Il preside, che sembra persona ragionevole, ben diverso da certi autocrati pseudo-manageriali che hanno occupato, negli anni, il suo posto, ha spiegato ai giornali che non c’è, in quella delibera, alcuna volontà di preselezionare il corpo studentesco, ma che si tratta di una pura ragione di spazio.  Capirete, le quarte ginnasio sono già dieci e tutti gli aspiranti, nel vecchio edificio di via Commenda, proprio non ci starebbero.
        Niente da eccepire, dunque.  Ma un po’ fa pensare questa aspirazione diffusa ad andare al “Berchet”.  I miei genitori all’epoca, lo avevano scelto per il motivo, semplicissimo, che era il classico più vicino a casa, l’unico raggiungibile a piedi, e in seguito, dopo l’esplosione della scolarità negli anni ‘60, quel criterio era stato in un certo modo ufficializzato, con la suddivisione della città in rigidi “bacini di utenza”. Adesso, evidentemente, le cose sono cambiate.  E anche se mi par ovvio che in molti ambiscano a una scuola in cui, oltre a me, ha studiato – apprendo sempre da “Repubblica” –  Luchino Visconti, e senza minimimamente volerne negare i meriti (ho sempre sostenuto a spada tratta il “Berchet” nell’annosa diatriba che lo oppone al “Parini”, con cui pure ho avuto a che fare), le motivazioni di tanto appeal mi sembrano richiedere qualche riflessione.
Certo, riesco a comprendere i motivi che spingono tanta brava gente a voler indirizzare la prole al liceo classico, perché quel tipo di istituto, per quanto arcaico sia il suo piano di studi e vaga la relativa vocazione professionale, gode di un prestigio sociale inossidabile e di una certa polverosa funzionalità didattica.  In fondo, se lo studio del latino non insegna certo a ragionare più di quello di qualsiasi lingua altra, resta vero che quell’erede legittimo del Realgiymnasium tedesco rappresenta, comunque, il modello da cui sono stati derivati tutti gli altri.  E visto che alla derivazione si è proceduto, in genere, con il metodo caro a Procuste del taglia  qui e aggiungi là, è presumibile che l’originale funzioni meglio delle imitazioni.   Ma ho abbastanza pratica di insegnamento per sapere che non esistono, nell’ambito di uno stesso ordine, scuole veramente “migliori” .   Anche nell’istituto più rinomato è facilissimo finire in una classe che, per un motivo o per l’altro, fa schifo, alla mercé di professori deplorevoli (e naturalmente viceversa).  Le pratiche su cui ci si accanisce da  decenni per impostare la didattica a livello di istituto, socializzandone, le caratteristiche e la qualità, restano empiriche e, il più delle volte, solo formali.
La vera motivazione, naturalmente, sta altrove.  Così, ai miei tempi, il “Berchet”, istituto, nel contesto di allora, non proprio centrale, frequentato com’era, tra gli altri, da studenti del Corvetto, del Vigentino, di Rogoredo, persino di Lodi e di Melegnano, era considerato quasi automaticamente di serie B rispetto a quelli cui affluivano i nobili rampolli di via Fatebenefratelli, di via Cappuccio o di via del Gesù.  Era un giudizio che con il merito didattico non aveva, ovviamente, che fare, ma reggeva benissimo.  Certi miei quasi coetanei che hanno fatto il “Parini” e magari poi si sono distinti nel ’68, sono convinti ancor oggi che in via della Commenda finissero esclusivamente quanti non riuscivano a soddisfare gli standard intellettuali richiesti in via Goito.  Ma oggi, naturalmente, la tipologia urbana delle classi e delle vie è cambiata e nulla vieta che anche il mio vecchio liceo sia considerato una “scuola bene” e quindi, per antonomasia, una “buona scuola”.  E confesso che un po’ mi dispiace.
Il fatto è che il modello di una scuola organizzata a più livelli qualitativi non appartiene alla tradizione dell’istruzione pubblica, come l’ho conosciuta io (e, suppongo, voi).  È tipico, anzi, di un sistema educativo fondato sulla scuola privata.  Anche lì, naturalmente, il prestigio sociale non coincide di necessità con l’eccellenza didattica, ma, visto che la scelta del livello si paga in contanti, il problema è irrilevante.  Nella società del denaro, è noto, tutto vale per quello che costa e nulla costa per quello che vale.  Ed è a quel mondo, al mondo delle public schools britanniche o dei colleges americani, che appartiene la prassi delle iscrizioni ereditarie, dei posti riservati, per generazioni, ai membri delle famiglie importanti.  Ma appunto. Della tradizione dell’istruzione pubblica, dell’ideale di un’educazione al più alto livello possibile gratuita e aperta a tutti, oggi, in Italia non interessa niente a nessuno.   È roba vecchia, il residuo obsoleto di un progetto sociale e di un quadro valori che, a destra e a sinistra, si lavora alacremente a smantellare.  E in attesa che la Moratti, o chi per lei, risolva il problema stabilendo che per accedere agli istituti più noti bisogna sborsare una retta adeguata (non ci vorrà tanto, vedrete) al “Berchet” possono divertirsi facendo finta di essere a Eton.

18.01.’04