Testimonianze

La caccia | Trasmessa il: 01/30/1999



Voi sapete che, indisciplinato qual sono, non ho mai avuto un particolare feeling per la magistratura e i magistrati, soprattutto quelli del ramo inquirente, ma certe volte, poveracci, fanno pena anche loro.  Pensate, per esempio, ai Procuratori della Repubblica.  Hanno la funzione, anzi, l’obbligo, di promuovere l’azione penale, cioè di individuare e portare in giudizio i presunti responsabili dei reati di cui vengono a conoscenza, e si aspettano, naturalmente, che questa loro attività venga riconosciuta e incoraggiata mediante una sollecita condanna del malfattore.   E invece non soltanto capita, talvolta, che l’imputato sia assolto (per fortuna succede di rado), ma sul loro cammino vengono accumulate continuamente nuove difficoltà e nuovi ostacoli.   Il Parlamento, per esempio, ha cercato di recente di tarpar loro le ali, prescrivendo che tutti i testimoni di accusa siano sentiti durante il processo, come se non bastasse la deposizione resa a suo tempo davanti agli inquirenti, senza fastidiosi battibecchi con gli imputati e i loro difensori, e per fortuna che la norma relativa, il noto articolo 513, è stata spazzata via dalla Corte Costituzionale e il tentativo di aggirare quel pronunciamento inserendola addirittura nella Costituzione è stato affondato proprio questa settimana dal gruppo DS in Senato.  Ma se i politici, ogni tanto, mostrano qualche salutare resipiscenza, ci pensano gli altri magistrati a complicargli la vita.  Così, una recente sentenza della Corte Costituzionale a sezioni riunite – gente seria, su cui di solito si può contare – ha prescritto, ripeto, ha prescritto, che se durante il processo cambia uno dei giudici (può succedere, per malattia, trasferimento o altro, soprattutto se i processi, come capita oggi, durano degli anni) si devono riascoltare di nuovo  i testimoni.  Così.  Solo perché un giudice si ammala e viene sostituito, bisogna ricominciare da capo, come se per giudicare bisognasse vagliare di persona tutte le testimonianze.  Inaudito.  Anche perché ricominciare da capo, in certi casi, significa lasciar scadere i termini e mandare a casa fior di colpevoli senza averli giudicati.
        In questi casi, di solito, i Procuratori dotati, come si dice, di maggiore “visibilità” compiono una specie di pellegrinaggio presso le autorità, la stampa, i media, protestando a gran voce e sottolineando i pericoli che incombono sulla Giustizia.   La sentenza di cui sopra, per esempio, ha costretto il dottor Caselli, cui la visibilità certo non manca, oltre che a volare a Roma per conferire subito con il Ministro, a spezzare l’abituale riserbo e a intervenire addirittura al “Maurizio Costanzo Show”.   E se è vero che costringere a simili tours de force un uomo tanto occupato è una vera vergogna, va detto che, di solito, quando il dottor Caselli si muove qualcosa a casa lo porta, tanto è vero che, appena due giorni dopo il tour de force in questione, i giornali hanno potuto annunciare che, contro quella che ormai veniva definita senza mezzi termini “la mannaia della Cassazione” (Repubblica del 29 gennaio u.s.) Diliberto stava preparando l’ennesimo “decreto salva processi”.
        Strano, però.  A prima vista uno potrebbe pensare che l’idea che chi accusa debba farlo in faccia all’accusato, dandogli modo di ribattere, se ha qualcosa da ribattere, sia abbastanza sensata.  Negli altri paesi civili, in quell’Europa in cui siamo tanto ansiosi di restare, si fa così.   E il principio che chi giudica debba aver sentito lui le testimonianze, piuttosto che farsele raccontare da un altro, o farsele leggere dai verbali, che sappiamo tutti che è un’altra cosa, a occhio e croce sembra addirittura ovvio.  Quanto alle scadenze, be’, in fondo non sono messe lì a caso, per favorire i marioli e ostacolare gli onesti: fanno parte di un sistema di garanzie che serve a tutti, o meglio, che servirebbe a tutti se lo si rispettasse con lo scrupolo che un sistema di garanzie merita sempre.   E comunque un processo che dura degli anni è già al limite dell’accettabile, perché il processo dovrebbe essere soprattutto una procedura orale, un dibattito dal vivo tra le parti, e un’oralità che si stempera in anni e anni di interruzioni e riprese può lasciare, come minimo, perplessi.   Nessuno potrà mai eliminare il rischio che un giudice si becchi l’influenza tra un’udienza e l’altra, ma se i processi fossero ricondotti, diciamo così, a dimensioni e durata umane quel rischio diminuirebbe di molto e non ci sarebbe bisogno di considerare una catastrofe cui affrettarsi a porre rimedio una sentenza, tutto sommato, ragionevole.
        Ma queste preoccupazioni, evidentemente, possiamo permettercele noi, che crediamo che la condanna debba pronunciarsi dopo il processo, non prima, e concediamo a tutti gli imputati il beneficio del dubbio e la possibilità di essere assolti, per un motivo o per l’altro, compresi quelli formali.  È difficile che tocchino la mente di chi è convinto che giustizia sia fatta solo se qualcuno viene condannato a qualche pena esemplare.   Ed è difficile, soprattutto, che interessino chi fa l’accusatore di professione ed è convinto – si spera – che le accuse che formula siano fondate.  Gli accusatori sono parziali per definizione.  Come la loro parzialità istituzionale possa conciliarsi con l’imparzialità che si richiede a ogni magistrato è, francamente, un mistero che non sono mai riuscito a comprendere.


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A proposito di magistrati.  Mi sembra che una certa considerazione la meriti anche quell’anonimo Giudice per le Indagini Preliminari che, trovandosi di fronte un giovanotto straniero sorpreso mentre cercava di rubare un’automobile e prontamente associato al carcere milanese di San Vittore, ne ha convalidato l’arresto perché l’accusato, nonostante fosse assistito da un interprete, si era rifiutato di rispondere.  Solo al processo in aula, come si apprende da Repubblica del 28 gennaio u.s., il pubblico ministero di udienza e l’avvocato difensore (d’ufficio, naturalmente) si sono accorti che lo sciagurato di motivi per non rispondere ne aveva uno eccellente: era sordomuto.  E se voleste obiettare che non è compito del Giudice per le Indagini Preliminari periziare le capacità di intendere e di farsi intendere degli accusati, vi risponderò che sì, è vero, non ne dubito, ma che una qualche perizia qualcuno, non so chi, su quel giovane l’aveva comunque compiuta, disponendo che fosse assistito in interrogatorio da un interprete di lingua araba.  Interprete di cui difficilmente il poveraccio avrebbe potuto giovarsi, anche se fosse stato dotato del dono dell’udito e della parola, perché si trattava di un cittadino peruviano di madrelingua spagnola (e un interprete di spagnolo, in effetti, in udienza è stato fatto venire).   Di equivoci, certo, ne possono sorgere tanti, ma quello per cui di fronte a un presunto rapinatore sconosciuto e inintelligibile si convoca innanzitutto l‘interprete di arabo mi sembra, nonostante tutto, qualcosa di più di un equivoco.   È una testimonianza.  Una testimonianza del fatto che nessuno è esente dai pregiudizi: nemmeno se fa parte della magistratura.

31.01.’99