“Famiglia cristiana”, nel senso della
nota rivista settimanale delle Edizioni Paoline, non è solo casa e chiesa.
Anzi, “non è mica casa e chiesa”, come ci assicura una diffusa
campagna pubblicitaria, che ha conquistato, in questi giorni, anche le
fiancate degli autobus. L’affermazione è orribile dal punto di vista
linguistico, per l’uso di quel “mica”, un avverbio affatto pleonastico
che un tempo avrebbe fruttato all’autore un bel segnaccio con la matita
blu, ma non ho motivo di supporre che sia menzognera. Personalmente
non leggo quel periodico, ma la mia amica Patrizia, che è una gran brava
persona, ma non si può definire esattamente pia, mi assicura che sulla
guerra e sulla globalizzazione esprime delle posizioni ben più incisive
di quante ne abbia manifestato l’intera opposizione di sinistra. Mi
direte che non ci vuol molto, ma, insomma, sul fatto che “Famiglia cristiana”
vada considerato un importante organo di informazione e non un insignificante
bollettino parrocchiale, che non si occupi, quindi, solo di casa e di chiesa,
ma di tutto quanto capita in questo povero mondo, possiamo essere tranquillamente
d’accordo.
D’altronde,
le testate dei giornali e delle riviste non sono, di solito, molto significative.
O vengono dalla tradizione, come i “Corrieri” e le “Gazzette”,
o esprimono messaggi affatto generici. Un settimanale può intitolarsi
“L’Espresso”, nel senso che si vanta di sottoporre le notizie ai lettori
con prontezza e sollecitudine, o “Panorama”, per esprimere la volontà
di offrire, degli eventi mondiali, una visione completa, secondo l’etimologia
del termine, ma né l’uno né l’altro nome intende accusare gli organi
della concorrenza di essere tardivi o incompleti. “Der Spiegel”
vuol essere “lo specchio” del nostro tempo allo stesso titolo con cui
“Time” si vanta di rispecchiarlo. Si tratta di etichette cui nessuno
attribuisce un valore particolare. I valori che ci spingono a scegliere
un organo d’informazione piuttosto che un altro si trovano, naturalmente,
altrove.
Tuttavia,
ci sono testate e testate. Se vado in edicola a comperare qualcosa
che si intitola, che so, “PC computers” o “Caccia e pesca”, ho il diritto
di trovarci, solo o soprattutto, articoli riguardanti l’informatica o
l’inseguimento e l’uccisione degli animali selvatici. Sarebbe futile
cercare su “Italia filatelica” altro che informazioni utili al collezionista
di francobolli o aspettarsi di leggere su “Bandiera rossa” o su “A –
Rivista anarchica” commenti ed editoriali ispirati alla filosofia del
liberismo (anche se, visti i tempi che corrono, si possono sempre avere
delle sorprese). Quel tipo di testate lì – chiamiamole pure,
se siete d’accordo, “testate parlanti” – indicano con una certa precisione
il campo di interesse e gli orientamenti ideologici dei periodici cui si
riferiscono. Sono frutto di una scelta editoriale precisa, quella
di chi limita, a priori, il proprio mercato, perché preferisce assicurarsi
una nicchia sicura. E non c’è dubbio che una testata come “Famiglia
cristiana” appartenga a questa categoria e che nel vanto di non essere
mica casa e chiesa si adombri, oltre che un idiotismo linguistico, una
certa qual fastidiosa contraddizione.
Avrete
già capito dove tendo a parare e mi direte, suppongo, che, come polemica,
la mia è piuttosto facile. È vero che quel periodico è nato, grosso
modo, come un bollettino parrocchiale allargato (veniva distribuito, più
che nelle edicole, alle porte dalle chiese in occasione della messa festiva),
ma poi si è evoluto. Oggi non si limita a esaltare i valori della
famiglia nell’interpretazione che ne dà la chiesa cattolica, ma si occupa
di costume, cultura, politica e di tutti i problemi della vita moderna.
Pubblica, credo, una rubrica di teologia, ma la cosa non vuol dire
niente, visto che eminenti teologi scrivono anche sul “Manifesto”. Che
male c’è se gli editori intendono rendere edotto il mercato di questi
sopravvenuto allargamento dei loro interessi?
Nessun
male, naturalmente. Ma a me quella campagna ha dato fastidio lo stesso.
Vi ho colto, se mi permettete, un barlume di quella vaghezza culturale
(o, se preferite i termini alla moda, di quello spirito bipartisan) che
aduggia il mondo contemporaneo. Sono stufo, amici miei, sono stufo
di gente che vuole la pace e vota per la guerra, che difende lo stato sociale
ma è sensibile alle esigenze del mercato, che vuole il progresso ma non
rinuncia alla tradizione, che predica il rispetto ma esercita la contumelia,
che vuole sempre e comunque il nero nel bianco e il bianco nel nero perché,
quando si viene al dunque, non sente il bisogno di schierarsi, ma teme
una corretta presa di posizione più di qualsiasi altra cosa al mondo. Non
invoco lo scontro, gli dei me ne scampino, ho sempre cercato di comprendere
le ragioni dell’avversario e di rispettarlo, quando appena possibile,
ma ammetterete anche voi che per essere rispettato un avversario deve manifestarsi
per tale. Di vescovi che spiegano le ragioni del laicismo e di laici
che dissertano sui fondamenti dello spirito religioso, non ne posso davvero
più. E non è, vi assicuro, un problema di scarsa tolleranza. La
tolleranza serve a gestire civilmente le diversità e non ha proprio niente
a che fare con una tendenza al compromesso ideologico che è sempre a rischio
di sconfinare nell’indifferenza morale.
Stando
così le cose, gli amici e colleghi di “Famiglia cristiana” non hanno,
ahiloro, possibilità alcuna di scelta. Se non vogliono che il pubblico
pensi che la loro rivista è tutta una cosa di casa e chiesa, cambino la
testata. Sarà, immagino, un sacrificio, perché a tutti fa piacere
appropriarsi del nuovo tenendosi ben stretto il vecchio, ma un sacrificio,
comunque, di ben poco conto di fronte all’esigenza di manifestare la verità.
Che è poi una delle esigenze base in cui cattolici e laici, religiosi
e miscredenti, possono (e debbono) riconoscersi insieme. E se la
conclusione vi sembra troppo solenne rispetto alla futilità del punto di
partenza, me ne dispiaccio, ma, francamente, non so cosa farci.
18.11.’01