Arrivo buono buono, spingendo il mio carrello, alla cassa del supermarket,
dispongo gli articoli della mia spesa sull’apposito nastro trasportatore,
aspetto che il cliente che mi precede abbia pagato (e di solito, chissà
perché, i clienti che mi precedono sono dei tipi complicati, che pagano
con un assegno, o col bankomat, o con qualsiasi altra procedura atta a
far perdere a tutti una quantità di tempo e a farmi rammaricare di non
aver scelto un’altra fila) e sorrido alla cassiera. Che ricambia
gentile il sorriso e mi chiede se ho la tessera.
Questa domanda, una volta, mi metteva in agitazione.
Non capivo di che tessera si trattasse e mi chiedevo se, per caso,
le autorità non avessero istituito a mia insaputa qualche forma di razionamento
annonario, o non avessero emanato qualche disposizione vessatoria che imponesse,
per fare la spesa, la detenzione di un apposito documento. Con i
tempi che corrono, in fondo, non ci sarebbe da stupirsene. Poi ho
capito – mi hanno spiegato – che in quella richiesta non c’è nulla
di ufficiale. Le tessere del supermarket (le tessere, perché ogni
catena ha la sua) sono il frutto e il portato di un’iniziativa promozionale
delle singole imprese, volta a garantirsi, e, in un certo senso, a premiare,
la fedeltà della clientela. Richiedendo la tessera all’apposito
sportello il consumatore avrà la possibilità di vedervi registrati i suoi
acquisti (elettronicamente, perché si tratta di uno dei soliti rettangolini
di plastica con banda magnetica), il che col tempo gli frutterà sontuosi
regali, sconti da capogiro e altre agevolazioni. È un po’ la variante
tecnologica delle vecchie cartoline per la raccolta dei bollini punto o,
a livello di piccola distribuzione, dello zampone natalizio che una volta
i salumieri riservavano in omaggio ai clienti affezionati. Niente
di politicamente preoccupante o di ideologicamente impegnativo.
Eppure io, che la tessera non ce l’ho, rispondo
alla domanda della cassiera con un certo, inspiegabile, senso di colpa.
Ho come l’impressione che la brava donna debba redarguirmi, debba
chiedermi se non mi vergogno a essere così riottoso e perché non mi decido
a farla, quella benedetta tessera, che non costa niente ed è tanto vantaggiosa.
Naturalmente lei non mi dice nulla del genere, immagino che glielo
vietino la deontologia professionale e gli ordini dei superiori,
ma ciò non toglie che nel mio “no” si avverta comunque una sfumatura
di disagio e nel suo sguardo io legga una sfumatura di disapprovazione.
Vedete: la tessera del supermarket, per un
motivo o per l’altro, non riesco a risolvermi a farla. Sarà un pregiudizio
ideologico, immagino: ai miei tempi le tessere significavano appartenenza
a una qualche organizzazione e ad appartenere a qualche organizzazione,
con gli anni, sono diventato sempre più riluttante. In giovinezza,
non lo nego, ho aderito a qualche struttura politica, ma, sarà stato un
caso, erano sempre delle organizzazioni troppo approssimative per poter
stampare tessere da distribuire ai propri aderenti. Non faccio parte
di club o associazioni; dalla tessera di Radio Popolare mi considero esonerato
in virtù del mio status di collaboratore volontario; al cinema ci vado
troppo di rado per aver bisogno della tessera AGIS e mi sembra, in definitiva,
che di tessere magnetiche nel portafoglio bastino e avanzano quelle obbligatorie
(il codice fiscale, ahimè, e presto – se ho capito bene – la tessera
sanitaria) o quelle, come la carta da credito, di cui, con tutta la buona
volontà, oggi non è proprio possibile fare a meno.
Anche perché, a pensarci bene, le moderne
tessere magnetiche non servono affatto a indicare un’appartenenza, come
i vecchi documenti in cartoncino che certificavano l’adesione del titolare
alla tal bocciofila di quartiere o alla tale organizzazione rivoluzionaria.
La loro peculiarità tecnologica consiste nella possibilità di registrarvi
dei dati che altri, dotati di appositi dispositivi, potranno leggere e,
come si dice, gestire. La futura tessera sanitaria che ci ha promesso
il ministro Bindi conterrà – sembra – tutte le possibili informazioni
sanitarie sul nostro conto: malattie sofferte, terapie subite e chissà
cosa d’altro. Le carte di credito sono state inventate apposta per
registrare da qualche parte gli acquisti che fai quando le utilizzi,
e, già che ci sono, registrano una quantità di dati accessori, per esempio
il luogo in cui ti trovavi quando hai fatto l’acquisto in questione. Ad
analoga funzione, su scala diversa, e senza neanche darti la soddisfazione
di differire l’esborso, adempie la tessera del supermarket. Per
un motivo o per l’altro, cresce sempre di più il numero delle persone
che sanno su di te un mucchio di cose: dov’eri nel tal giorno alla tal
ora, che medicine assumi, che cosa comperi di solito, dove vai in vacanza
e chi più ne ha più ne metta. In un’età in cui si elaborano complessi
strumenti legislativi per garantire la privacy dei cittadini, ci rendiamo
sempre più conto che di privato ci resta ben poco, tanto è vero che l’effetto
principale che hanno avuto quegli strumenti sulla nostra vita di tutti
i giorni è stato quello di costringerci a firmare una quantità di autorizzazioni
a ignorarli. Basterebbe unificare tutte le banche dati disponibili
(il che, tecnologicamente, è quanto di più semplice si possa immaginare)
per poter avere su chiunque una gamma di dati davvero ampia.
Che la raccolta e la gestione di informazioni
del genere rappresenti, in qualche modo, una forma di controllo è un’ovvietà
di cui siamo tutti a conoscenza. Prima e dopo il1984 di Orwell sono
state pubblicate decine di libri e pamphlet in cui i caratteri oppressivi
di una società fondata sull’informazione totale erano efficacemente descritti
e denunciati. Ma, naturalmente, quegli autori tendevano ad attribuire
una strutturazione sociale del genere a un progetto unitario messo in opera
da qualcuno, alla volontà di qualche ingegnoso aspirante oppressore. Che
una forma di controllo globale, o quasi, potesse generarsi spontaneamente,
per sommatoria di singoli progetti parziali, in buona parte innocui (come
quelli del supermarket) o addirittura benefici (come quelli sanitari) non
era, che io sappia, venuto in mente a nessuno. La realtà, evidentemente,
supera sempre la fantasia.
Che volete che vi dica. Non credo, allo
stato, che sia possibile far molto per invertire questa tendenza. Mi
rendo anche conto che il rifiutare la tessera del supermarket non significa
niente: è un gesto dal valore simbolico affatto irrisorio. Ma, insomma,
da qualche parte bisogna pur cominciare. E il principio base, in
questi casi, è sempre lo stesso: non bisogna offrirsi mai volontari.
14.02.’99