A proposito di versioni rivedute e corrette,
suppongo abbiate sentito anche voi che, oltre a quella dell’Inno nazionale,
ci toccherà presto quella delle Scritture. Sembra infatti che, su
incarico della competente Autorità religiosa, uno staff di esperti abbia
provveduto a una revisione del testo italiano corrente dell’Antico e del
Nuovo Testamento. Gli esiti dell’operazione, come è ovvio, si noteranno
particolarmente in quei brani che, perché usati nella liturgia o comunemente
impiegati in forma di preghiera, ci sono più familiari. Così, corre
voce che si sia discusso a lungo se mantenere nel Gloria la dizione "Dio
degli eserciti”, che sembrava in qualche modo in contrasto con le vocazioni
pacifiste del moderno cattolicesimo, e se modificare quella formula del
Padre nostro che, chiedendo al Signore di “non indurci in tentazione”,
poteva far supporre una qualche compartecipazione divina a una funzione
che, stricto sensu, dovrebbe spettare esclusivamente al Demonio.
Ho
letto che le due questioni sono state risolte in senso opposto. Il
“Dio degli eserciti” resterà tale, nonostante la possibilità, già prospettata
da Tertulliano, di interpretare il Sabaóth dell’originale nel senso più
innocuo di “schiere celesti”, ma nel Padre nostro gli chiederemo di “non
lasciarci esposti alla tentazione”. Gli esperti devono aver concluso
che una connotazione, diciamo così, “militare” dell’Onnipotente, tutto
sommato, si regge, mentre un ruolo di tentatore proprio non Gli si addice.
Personalmente, direi piuttosto il contrario, ma non ho certo i titoli
per oppormi alla conclusione, nel senso che non saprei proprio proporvi
un valore semantico appropriato per quel termine ebraico che gli autori
delle versioni greca e latina del sacro testo hanno lasciato, prudentemente,
in forma originale.
In
compenso, so abbastanza di greco e latino per assicurarvi che la nuova
traduzione del Padre nostro, che non ha alle spalle un originale ebraico
noto, sarà, non lo discuto, più accettabile dal punto di vista teologico,
ma linguisticamente non sta in piedi. Il vecchio “non indurci in
tentazione” rendeva assai bene il ne nos inducas in temptationem di San
Girolamo, che, a sua volta, era un ineccepibile calco del kaì mè
eisenénkeis hemàs eis peirasmòn dell’Evangelista. I verbi induco
ed eisféro, non c’è santi, vogliono proprio dire “indurre”, nel senso
di “condurre dentro”, “spingere in”. Hanno una connotazione,
come si dice, “fattiva”, che stride con il “lasciarci esposti” proposto
dallo staff pontificio. Mi rendo conto che l’idea di un padre che
spinge i figli alla tentazione può sembrare per certi versi disdicevole,
ma, a parte il fatto che anche il lasciarveli esposti non è una bella cosa,
il testo è quello che è. A meno di supporre che Luca e Matteo, che
usano entrambi (11,4 e 6,11) quel verbo, abbiano clamorosamente cannato,
sarebbe stato più corretto, almeno dal punto di vista linguistico, rassegnarsi
a convivere con la contraddizione. La teologia, d’altronde, ce ne
propone ben altre.
Ma tant’è. Tra traduzione e filologia i rapporti sono meno stretti
di quanto dovrebbero essere e la tentazione di far dire a un testo quello
che desideriamo sentirgli dire è una di quelle cui il Signore più frequentemente
ci lascia esposti. Ogni scrittura ha in sé quel tanto di ambivalenza
da consentire al traduttore una scelta, che dipenderà, in ultima analisi,
da considerazioni che non con la linguistica hanno a che fare, ma atterranno,
piuttosto, al potere. Anche per far accettare una dizione gradita,
insomma, bisogna avere dei santi in paradiso. E se i militari, a
quanto pare, ne hanno quanti ne bastano per mantenere gli eserciti nel
Gloria, non c’è dubbio che i linguisti siano messi assai peggio.
02.06.’02