Teologia della traduzione

La caccia | Trasmessa il: 06/02/2002



A proposito di versioni rivedute e corrette, suppongo abbiate sentito anche voi che, oltre a quella dell’Inno nazionale, ci toccherà presto quella delle Scritture.  Sembra infatti che, su incarico della competente Autorità religiosa, uno staff di esperti abbia provveduto a una revisione del testo italiano corrente dell’Antico e del Nuovo Testamento.  Gli esiti dell’operazione, come è ovvio, si noteranno particolarmente in quei brani che, perché usati nella liturgia o comunemente impiegati in forma di preghiera, ci sono più familiari.  Così, corre voce che si sia discusso a lungo se mantenere nel Gloria la dizione "Dio degli eserciti”, che sembrava in qualche modo in contrasto con le vocazioni pacifiste del moderno cattolicesimo, e se modificare quella formula del Padre nostro che, chiedendo al Signore di “non indurci in tentazione”, poteva far supporre una qualche compartecipazione divina a una funzione che, stricto sensu, dovrebbe spettare esclusivamente al Demonio.
        Ho letto che le due questioni sono state risolte in senso opposto.  Il “Dio degli eserciti” resterà tale, nonostante la possibilità, già prospettata da Tertulliano, di interpretare il Sabaóth dell’originale nel senso più innocuo di “schiere celesti”, ma nel Padre nostro gli chiederemo di “non lasciarci esposti alla tentazione”.  Gli esperti devono aver concluso che una connotazione, diciamo così, “militare” dell’Onnipotente, tutto sommato, si regge, mentre un ruolo di tentatore proprio non Gli si addice.   Personalmente, direi piuttosto il contrario, ma non ho certo i titoli per oppormi alla conclusione, nel senso che non saprei proprio proporvi un valore semantico appropriato per quel termine ebraico che gli autori delle versioni greca e latina del sacro testo hanno lasciato, prudentemente, in forma originale.
        In compenso, so abbastanza di greco e latino per assicurarvi che la nuova traduzione del Padre nostro, che non ha alle spalle un originale ebraico noto, sarà, non lo discuto, più accettabile dal punto di vista teologico, ma linguisticamente non sta in piedi.  Il vecchio “non indurci in tentazione” rendeva assai bene il ne nos inducas in temptationem di San Girolamo, che, a sua volta, era un ineccepibile calco del  kaì mè eisenénkeis hemàs eis peirasmòn dell’Evangelista.   I verbi induco ed eisféro, non c’è santi, vogliono proprio dire “indurre”, nel senso di “condurre dentro”, “spingere in”.  Hanno una connotazione, come si dice, “fattiva”, che stride con il “lasciarci esposti” proposto dallo staff pontificio.   Mi rendo conto che l’idea di un padre che spinge i figli alla tentazione può sembrare per certi versi disdicevole, ma, a parte il fatto che anche il lasciarveli esposti non è una bella cosa, il testo è quello che è.  A meno di supporre che Luca e Matteo, che usano entrambi (11,4 e 6,11) quel verbo, abbiano clamorosamente cannato, sarebbe stato più corretto, almeno dal punto di vista linguistico, rassegnarsi a convivere con la contraddizione.  La teologia, d’altronde, ce ne propone ben altre.
          Ma tant’è.  Tra traduzione e filologia i rapporti sono meno stretti di quanto dovrebbero essere e la tentazione di far dire a un testo quello che desideriamo sentirgli dire è una di quelle cui il Signore più frequentemente ci lascia esposti.  Ogni scrittura ha in sé quel tanto di ambivalenza da consentire al traduttore una scelta, che dipenderà, in ultima analisi, da considerazioni che non con la linguistica hanno a che fare, ma atterranno, piuttosto, al potere.  Anche per far accettare una dizione gradita, insomma, bisogna avere dei santi in paradiso.  E se i militari, a quanto pare, ne hanno quanti ne bastano per mantenere gli eserciti nel Gloria, non c’è dubbio che i linguisti siano messi assai peggio.
02.06.’02