Tentazioni secolari

La caccia | Trasmessa il: 03/02/2008


    Fu Gesù in persona, come racconta l'evangelista Matteo (XI, 11), a insegnare ai suoi seguaci di chiedere al Padre di non indurli in tentazione e non a caso milioni di cristiani ripetono ancor oggi le Sue parole. Sapeva per esperienza, il Redentore, quanto siano fragili gli esseri umani, esposti a innumerevoli sollecitazioni e spesso incapaci, non foss'altro per mancanza di dati sicuri, di ignorare quelle dannose. Tanto è vero che quella preghiera non chiede la forza di respingere le lusinghe del male, o la sagacia necessaria per identificarle per tali, ma auspica che le tentazioni, semplicemente, ci siano risparmiate.

    Gesù, per fortuna, non si occupava di teologia. Da quel punto di vista, infatti, l'invito del “Padre nostro” comporta una quantità di complicazioni, ben testimoniate, come abbiamo avuto occasione di osservare qualche mese fa, dagli sforzi della esegesi ufficiale di smorzarne l'impatto con una traduzione quanto possibile laterale. Perché mai un Padre che si suppone amoroso debba sentire il bisogno di “indurre in tentazione” le sue creature, obbligandole a chiederGli di non farlo, non è, in effetti, facilissimo da comprendere. Già si fa fatica ad accettare la vulgata corrente, quella per cui tale compito è delegato, per così dire, a certe apposite entità maligne e non tutti, naturalmente, hanno la spregiudicatezza di un Goethe, che nel “Prologo in cielo” introduce il Demonio in amabile conversazione con l'Onnipotente. Che poi sia Lui in persona a tentarci, per chissà quali imperscrutabili fini, sembra francamente un po' troppo e non solo agli increduli. Da qui il successo delle traduzioni moderne del tipo di “non lasciarci esposti alla tentazione”, “non abbandonarci” indifesi alle sue lusinghe e così via: soluzioni brillanti, che hanno il solo difetto di forzare clamorosamente il testo originale, in cui si impiega il verbo eisféro, che vuol dire proprio “portare dentro”, “spingere verso” e non ha alcuna attinenza con il “tenere lontano” o il “proteggere da”.
    Forse per questo la Chiesa quell'invito, più che al Signore, preferisce rivolgerlo allo stato. Altro, infatti, non significano le esortazioni, più o meno cogenti, che quella istituzione è solita indirizzare alle autorità civili affinché adeguino prassi e normativa alle sue peculiari esigenze. Si tratta di un vizio antico, anche se i tempi, per fortuna, sono cambiati, ma il meccanismo è sempre lo stesso: come un tempo si chiedeva al braccio secolare che ai fedeli venisse risparmiata la tentazione di prestare ascolto alle voci di scisma ed eresia, bruciando sul rogo coloro che avrebbero potuto diffonderle, oggi – per citare, tra i tanti possibili, un esempio di attualità – si chiede che alle donne sia evitata la tentazione di interrompere la maternità eliminando la legge che lo rende possibile. E può trattarsi, se non di aborto, di famiglia e di convivenze, di morale sessuale, di accanimento terapeutico, dell'obbligo di santificare le feste o del contenuto dei programmi scolastici, ma l'idea è sempre quella e non tiene mai il minimo conto del fatto che, se una volta la comunità dei fedeli coincideva, più o meno, con quella dei cittadini (ma allora li si chiamava “sudditi”), oggi i due ambiti sono – o dovrebbero essere – distinti. Ma appunto questo è il fondamento di quella “antropologia” laica che ogni buon cristiano è invitato a rifiutare.
    Di solito il prelato di turno si giustifica affermando di non chiedere affatto che tutti si adeguino ai precetti ecclesiali, ma di esigere solo che lo stato si attenga al diritto naturale, che, essendo naturale, vale per tutti. Ed è vero che questa di “diritto naturale” resta una categoria altamente opinabile, ma visto che il clero si riserva il diritto di decidere lui che cosa è naturale e cosa no (come nel caso degli atti e delle unioni “contro natura”) una definizione più approfondita non è necessaria. Non è detto, comunque, che tutte le pretese di quel tipo possano essere giustificate in quei termini. Basta passare dall'ambito dei grandi principi e delle grandi questioni a quello della normativa quotidiana per rendersi conto che in questo modo di rgaionare c'è qualcosa che non funziona.
    Difficile, per esempio, interpretare in termini di diritto assoluto l'invito che la Curia milanese, nella persona del responsabile diocesano per l'insegnamento, don Michele Tolve, ha rivolto in questi giorni all'Ufficio scolastico regionale, chiedendo di prendere provvedimenti contro quei presidi che collocano all'inizio o alla fine della mattinata le ore di religione. Capirete: con la prospettiva di dormire un'ora in più o di andare a casa un'ora prima, la tentazione di “non avvalersi” di quell'insegnamento può farsi all'improvviso fortissima ed è opportuno che a essa i nostri giovani non siano indotti. Una opportunità che il braccio secolare, nella persona del direttore generale, Anna Maria Dominici, ha subito mostrato di condividere, inviando a tutti i presidi milanesi ben due circolari, in cui tra i “punti di criticità” che le Signorie Loro sono invitate a eliminare al più presto c'è appunto anche quello della collocazione oraria di quella specifica attività didattica. La scuola pubblica è laica, ma di fronte a un ultimatum curiale, almeno in Lombardia, la tendenza è quella di scattare sull'attenti.
    Bah. A quanto ricordo dei miei anni di scuola, il problema della collocazione dell'ora di religione è sempre stato spinoso. La normativa derivata dal Concordato del 1984 prevedeva, per chi non volesse avvalersene (come suonava la nuova dizione, invece del più brutale “esonerato” che si usava in precedenza), certi misteriosi “insegnamenti alternativi” per organizzare i quali nessun preside, nemmeno il più formigoniano, ha mai avuto né i mezzi né le competenze. Onde la tendenza, se possibile, a lasciare o rimandare quei reprobi a casa, piuttosto di vederli sguinzagliati per la scuola a far danno. In Italia, si sa, se una legge non funziona, ci si limita a lasciarla tacitamente cadere, salvo il diritto di recuperarla quando fa comodo. Come appunto adesso, quando, dovendo giustificare il forte calo di partecipazione alle lezioni di religione (sembra che alle superiori le frequenti appena il 6% degli allievi), la Curia ha deciso che è colpa della legge che gli permette di farlo, o, per lo meno, del modo con cui la si applica. La tentazione di un'ora d'ozio sarebbe, insomma, troppo forte. Eliminiamola e vedrete che l'interesse per la catechesi salirà di colpo.
    Il dubbio che tutto questo possa essere anche o soprattutto un problema di coscienza per i giovani adulti che frequentano quel tipo di scuola, non sembra aver sfiorato nessuno, né in Curia né all'Ufficio scolastico regionale. La libertà di coscienza non interessa ai burocrati, laici o clericali che siano. E scusatemi se sono partito da Gesù e dal “Padre nostro” per concludere su queste piccinerie, ma sono appunto le piccinerie che danno il polso della situazione in cui ci troviamo. Quella lettera del Responsabile diocesano e quelle due circolari del Direttore si prefiggono, concordemente, l'obiettivo di di diminuire la libertà di noi tutti e queste cose vale sempre la pena di farle notare.

    02.03.'08