Tecniche sindacali

La caccia | Trasmessa il: 10/14/2007


    Nessuno vorrà negare – spero – che i risultati del recente referendum sindacale siano stati i migliori possibili. Dalle urne è uscita una solida maggioranza a conforto dei sostenitori del “sì”, ma anche i fautori del “no”, con il robusto 20% che gli compete, possono essere soddisfatti. Tanto è vero che hanno avuto modo di far capire che quel 20, se si tiene conto delle categorie e dei luoghi di lavoro di cui è espressione, va considerato in un certo senso, più importante e significativo di quell’altro banale 80, e rappresenta, quindi, una importante conferma del loro punto di vista. Quei risultati, insomma, autorizzano gli uni a sostenere che nulla negli accordi oggetto del voto debba essere modificato e gli altri a chiedere che di modifiche ce ne siano e sostanziose. Se nessuno si sbaglia, questo dovrebbe significare che l’intera procedura è stata assolutamente inutile, se non forse dal punto di vista mediatico. Il fatto che nessun commentatore lo abbia fatto notare, forse vuol dire semplicemente che lo davano tutti per scontato.
    Si è parlato, incautamente, di brogli. Incautamente, dico, perché chiunque abbia un minimo di esperienza di cose sindacali sa benissimo che in quell’ambito non servono brogli per far affermare, ove lo si desideri, una posizione. Ricordo bene quando anch’io facevo parte del novero dei lavoratori dipendenti e seguivo, con maggiore o minore entusiasmo, la vita sindacale. Non c’era accordo, normativo e/o salariale, che non venisse accolto dalla base con urla di raccapriccio e disgusto. Ogni assemblea di ratifica si riduceva, in prima istanza, a una serqua di lamentele, querimonie, accuse e minacce di far coriandoli della tessera. Ma il compagno mandato dal sindacato riusciva sempre a venirne a capo. Non aveva difficoltà, certo, ad ammettere che le proteste dei convenuti fossero giustificate, anzi, era lui il primo a denunciare le lacune e le manchevolezze di quanto veniva proposto. Ma, compagni, aggiungeva, questo non significa che si debba rinunciare per forza a quel poco che l’accordo comunque assicura. Date retta, facciamo così: votiamo una bella mozione in cui il nostro “sì” sia indissolubilmente legato all’impegno solenne per tutta l’organizzazione di continuare la lotta sui punti cui, per ora, ci è stato giocoforza rinunciare. Accompagnato dai tradizionali inviti a non gettare il bambino con l’acqua sporca e a mettere comunque il fieno in cascina, quell’appello funzionava sempre. Decidevamo, sentendoci molto furbi, di votare “sì, ma” o, meglio, “sì, se” e non capivamo che, mentre il “sì” sarebbe stato messo subito all’incasso, i nostri “se” e “ma” non avrebbero avuto maggiore risonanza del classico petalo di rosa lasciato cadere nel Gran Canyon. Chi se ne rendeva conto, il più delle volte smetteva di frequentare le assemblee e quindi non dava fastidio a nessuno.
    Sono, i miei, ricordi di più di vent’anni fa e non mi azzarderò a sostenere che sia successo, in questi giorni, qualcosa del genere. Ma non ci posso far niente se, da allora, dei risultati delle assemblee e dei referendum sindacali ho sempre un po’ dubitato. Il sindacato, vedete, è una struttura essenzialmente democratica, ma esente, in un certo senso (e per ovvii motivi storici) delle preoccupazioni della scuola liberale. La sua modalità di rappresentare iscritti e lavoratori non può non tener conto della presenza, comunque, di un solida struttura dirigente professionale o semiprofessionale e della sua capacità di imporre le proprie logiche. Tanto è vero che ogni volta che si affida al sindacato il compito di organizzare questo tipo di verifiche (che sono poi verifiche su se stesso) i risultati finiscono per riflettere i rapporti di forza presenti nell’organizzazione.
    La democrazia, ogni tanto, impone proprio dei rituali strani.