Tagli disciplinari

La caccia | Trasmessa il: 01/31/2010


    Nell'apprendere che tra le tante malefatte della ministra Gelmini c'è anche il progetto di abolire l'insegnamento della geografia dalle scuole di ogni ordine e grado (o quasi), mi è sovvenuto che a tale insegnamento, non sembri strano, sono io stesso regolarmente abilitato. È un titolo, veramente, che non ho mai sfruttato e non deriva, in realtà, da una scelta consapevole, da un particolare interesse per la materia o dalla speranza di ricavarne, chissà, qualche agevolazione di carriera: il fatto è che a suo tempo, laureato in Lettere Antiche, desideravo insegnare materie classiche nei licei e la normativa vigente prevedeva che a quel tipo di abilitazione potessero accedere solo quanti già fossero abilitati in italiano. E nel programma per l'abilitazione all'insegnamento dell'italiano, com'era e come non era, erano previste anche la storia e la geografia. All'università avevo seguito un corso – strepitoso – di geografia, ma il suo contenuto non aveva nulla a che fare con quanto sotto quel nome si insegnava nelle scuole italiane (era dedicato, se ricordo bene, all'evoluzione storica del paesaggio agrario) per cui mi era stato giocoforza rispolverare i libri del ginnasio e ricominciare con pazienza a memorizzare elenchi di fiumi, capitali e catene montuose. E fin lì poco male: il guaio era che il programma prevedeva anche la geografia astronomica e in tema di inclinazione dell'ellittica e processione degli equinozi ero davvero un po' spaesato. In effetti, non capisco ancora come, in quella parte dell'esame, sia riuscito a cavarmela: probabilmente perché gli esaminatori, tutti insegnanti o presidi di liceo, alla geografia erano interessati ancor meno di me.
    Basta questo, naturalmente, per capire che già allora quella materia, vista come una sorta di appendice obbligatoria e amorfa a quelle che davvero caratterizzavano i vari tipi di insegnamento, non aveva, nella scuola italiana, un grandissimo ruolo. Era prevista, sì, ma nella convinzione che chiunque, a prescindere dagli studi e dagli interessi, fosse in grado d'insegnarla. Il suo statuto epistemologico era incerto: non rientrava a pieno titolo nel novero delle materie umanistiche – quelle che nella scuola di allora contavano veramente – ma non si poteva neanche associarla a pieno titolo al campo scientifico. E questa difficoltà, lungi dall'essere di tipo puramente nominale, era più seria di quanto non possa apparire. L'oggetto della materia, stando all'etimologia, era la descrizione della Terra, ma i punti di vista in base ai quali si può descrivere il nostro pianeta erano (e sono) troppi per determinare una vera e propria specializzazione. Una cosa è vederlo come un corpo fisico, un'altra è considerarla un corpo celeste (un corpo fisico nello spazio, in rapporto con gli altri che vi sono sospesi) o l'ambiente di infinite specie viventi o la sede delle molteplici civiltà che l'una di esse ha sviluppato negli anni. Ciascuno di questi approcci richiede metodologie e strumenti diversi e il tentativo di conciliarne, se non tutti, almeno alcuni aspetti (perché è ovvio che il tipo della vegetazione dipende dalla natura del terreno, o che la cultura di un popolo non è indifferente al clima del paese che abita) comporta un patrimonio cospicuo di nozioni e competenze. Coinvolgere i propri studenti in un tentativo del genere sarebbe, per una scuola degna di questo nome, una sfida affascinante, ma anche una impresa piuttosto ardua.
    Il problema, d'altronde, non si pone solo per la geografia. Tutte le nozioni che si studiano a scuola, in teoria, possono (o debbono?) essere messe in rapporto tra loro ed è solo attraverso il confronto costante degli approcci e delle procedure che i discenti possono formarsi una vera cultura. Libero ciascuno di seguire i propri interessi, ma tutti ugualmente tenuti a tener conto di quelli altrui, in una dimensione che ha senso solo se multidisciplinare. Chi ha pratica di scuola ha dovuto cozzare infinite volte contro queste ovvietà, che pure tendono a presentarsi irrisolte generazione dopo generazione
    Per una cosa, infatti, le Gelmini di questo mondo hanno una ripugnanza innata e profonda: l'idea, appunto, che ciascuno possa seguire i propri interessi per poi confrontarli con quelli degli altri. E quanto all'interdisciplinarità dubito che la considerino in altro modo che una brutta parola. Bisogna capirli: scelta e confronto comportano una dose di libertà troppo maggiore di quella che costoro reputano auspicabile concedere ai giovani (e, quanto a questo, agli adulti). Per loro lo scibile ha un senso solo se diviso in materie ben definite, limitate e obbligatorie. Il resto è meglio vietarlo, o, vista la crisi incombente e la necessità di ridurre le spese, tagliarlo. Il problema, naturalmente, non riguarda solo la geografia, anzi, riguarda soprattutto il resto: è il problema dei piani di studi rigidi, uguali per tutti senza neanche un sospetto di opzionalità, dei programmi particolareggiati e calati dall'altro, degli indirizzi non comunicanti, della concezione referenziale della cultura, quella per cui a ogni domanda esiste una e una sola risposta e se non me la sai dire ti boccio. Del fatto che nell'eterna contrapposizione tra magistri e ministri sono sempre i secondi, con buona pace dell'etimologia, a prevalere.

    Pazienza, torniamo alla geografia. Ho controllato e non è vero, in realtà, che sarà del tutto abolita. Al livello inferiore e medio inferiore la situazione dovrebbe restare più o meno la stessa, ai licei l'insegnamento sarà limitato al primo biennio (come peraltro credo succeda già adesso) e negli altri istituti superiori qualche ora si finirà per concedergliela. L'unico istituto da cui, se ho capito bene, la geografia è destinata a sparire del tutto è l'istituto nautico, destinato a sua volta a essere trasformato in branca di un costituendo “istituto per i trasporti”. Evidentemente, che il capitano di una nave conosca la differenza tra est e ovest, o sappia che la rotta per New York è tutt'altra da quella per Mombasa non sembra ai consulenti ministeriali un dato di particolare importanza. È a questi piccoli tocchi di surrealismo, in fondo, che chi ci governa affida le residue possibilità di stupirci.
07.02.'10