Supremazie

La caccia | Trasmessa il: 10/07/2001



Non mi sarebbe spiaciuto, ve lo confesso, assistere, martedì scorso, all’incontro tra Berlusconi e gli ambasciatori islamici, quello in cui il nostro capo del governo, con la consueta faccia di bronzo, ha giurato e spergiurato di non avere assolutamente detto quello che , in tema di superiorità della “civiltà occidentale” sull’Islam,  tutti gli avevano  sentito dire.   Dev’essere stato un bel match.  Quei degni diplomatici, naturalmente, hanno dovuto far finta di credere a quanto veniva loro assicurato, ma suppongo abbiano trovato il modo di far capire al loro disinvolto interlocutore che, in futuro, avrebbe fatto meglio a riflettere un poco prima di parlare.  Una pretesa  in sé ragionevole, ma, nel caso, illusoria, perché il nostro presidente del consiglio ama parlare e non è sempre disposto a riflettere e il suo comportamento, per certi versi, ricorda quello del bambino che appena libero dalla sorveglianza della maestra ne approfitta per dire le parolacce, salvo poi negare, quando si giunge al redde rationem, di aver detto alcunché.
        E dire che quando, una decina di giorni fa, Berlusconi, a Berlino, aveva aggiunto la sua pietruzza alla dilagante polemica contro il “relativismo culturale”, avevo avuto, per un brevissimo istante, la tentazione di dargli, per una volta, un po’ di ragione.  Non perché confidi, come lui, in alcun primato o in alcuna supremazia dell’Occidente, naturalmente, ma perché sono davvero un po’ stanco, come immagino voi, di quella forma di relativismo istituzionale secondo la quale usi, costumi e valori altrui, proprio perché altrui, vanno, se non rispettati e ammirati, almeno sottratti a un franco e sincero  giudizio.  Di una tolleranza che rispetta quello in cui credono gli altri solo perché a crederci sono, appunto, degli altri, mi è sempre sembrato il caso di diffidare.  Ho sempre creduto, al contrario, che qualsiasi presa di posizione umana meritasse di essere valutata e giudicata, in nome di quell’umanità che, al di là delle opzioni culturali, ci accomuna tutti. Non penso che si manchi di rispetto a nessuno rifiutandosi di condividere le sue credenze e mi sembra doveroso, ove quelle credenze appaiano errate e nocive, dichiararlo con quanta più chiarezza possibile.   Quella dell’Islam è una grande civiltà, che può vantare una storia gloriosa e delle notevoli realizzazioni, ma alcuni dei suoi atteggiamenti attuali mi sembrano, senza offesa, un po’ discutibili.   Non mi riferisco soltanto alla vexata quaestio della posizione delle donne nella maggior parte dei paesi islamici, che pure non è problema da poco.  Mi sembra, più in generale, che in molti di quei paesi si tenda a dare ai portati della tradizione più peso di quanto, francamente, non meritino e che da questo atteggiamento discenda, di giocoforza, una serie di conseguenze piuttosto gravi, quali un deficit generale di democrazia e la difficoltà nel separare, sul piano ideologico e su quello dell’organizzazione sociale, gli elementi di natura religiosa da quelli puramente civili.   Il problema non riguarda soltanto l’Islam, naturalmente – dobbiamo fare i conti anche noi con i nostri Wojtyla e i nostri Formigoni – ma appunto per questo merita di essere posto.  Come merita sempre di essere posto il problema dell’oppressione e della prevaricazione, ovunque si eserciti e in nome di qualsiasi pretesa ideale venga esercitato.
        Naturalmente la tentazione di dar ragione a Berlusconi mi è passata subito.  È fin troppo ovvio che lui con tutto questo non c’entra.  I tipi come lui concepiscono i rapporti tra le culture in termini di superiorità e di inferiorità, come a dire che loro si considerano superiori agli altri (e quindi si sentono autorizzati a disporre ad arbitrio delle risorse disponibili) e quando qualcuno manifesta un pur timido disaccordo non sanno fare di meglio che risolvere la questione a suon di botte.   È una pretesa, questa, in cui nessuna persona seria può riconoscersi, anche perché è intrinsecamente pericolosa.  Di fatto, la superiorità dell’Occidente come la intendono loro ha creato, in questo povero mondo, più sofferenze e più lutti di quante ne abbia mai provocato la supposta arretratezza delle società tradizionali.
E c’è di più.  Le culture, in fondo, non esistono.  Sono delle entità teoriche, dei flatus vocis sotto i quali può essere comodo raggruppare le più varie manifestazioni ideologiche e sociali.  Sappiamo tutti che non c’è un unico Islam, come non c’è un unico Occidente o un unico Cristianesimo.  Le rispettive definizioni dipendono dai criteri di classificazione e giudizio che di volta in volta decidiamo di utilizzare o di non utilizzare.  La pretesa di fare di quelle astrazioni un soggetto concreto di valore risale a quel filone (reazionario) del pensiero sociologico ottocentesco che utilizzava in senso anti-illuministico la contrapposizione tra “comunità” e “società”, tra Gemeinschaft e Gesellschaft.   La libertà dei singoli, in quella prospettiva, tende a identificarsi con l’adesione al sistema di valori della comunità in cui sono inseriti.   È la libertà, sempre cara a chi detiene comunque il potere,  di aderire e obbedire, consolandosi come si può sul piano ideologico dei propri lutti e delle proprie sofferenze.  
Il fatto è che lutti e sofferenze sono ripartiti – in modo, certo, ineguale –  tra gli uomini tutti, quali che siano la società e la cultura in cui ciascuno si riconosce.  Il problema non è quello di giudicare in astratto i sistemi ideologici e sociali: è quello di riconoscere, nella varietà dei modi e delle forme storiche, le costanti dell’oppressione e della negazione dei diritti che ciascuno di essi, a suo modo, perpetra.   E senza fare, naturalmente, eccezioni per nessuno, perché noi occidentali siamo sempre pronti a vantarci della nostra democrazia, ma possiamo farlo soltanto a patto di occultarne ai nostri stessi occhi il funzionamento reale.  Non c’è società al mondo, tanto meno la nostra, in cui una minoranza di arroganti bastardi non sfrutti spietatamente una maggioranza di sottomessi.  Su questa contrapposizione, più che su quella tra Oriente e Occidente, o tra Cristianesimo e Islam, mi sembra valga la pena di lavorare.  Ma non è questo un invito, naturalmente, che ci si possa aspettare da un Berlusconi.

C.O. -  07.10.’01