Suasoriae e controversiae

La caccia | Trasmessa il: 03/17/2002



Spero vi sia piaciuta la sicurezza con cui Berlusconi ha dichiarato che la prevista riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non si propone, dio ne scampi, il fine di agevolare i licenziamenti, ma quello, ben più nobile, di incrementare le assunzioni.  Altri, meno sicuri di lui, si sono limitati a insolentire gli avversari, come il ministro competente, o si sono rifugiati dietro penosi tecnicismi, balbettando di ”ammodernamento del mercato del lavoro” o di ”adeguamento ai criteri europei della sanzione per il licenziamento senza giusta causa,” come ha fatto in televisione il Presidente della Confindustria, non ignaro, probabilmente, del fatto che espressioni di questo tipo sulla più parte degli ascoltatori fanno lo stesso effetto di un dibattito teologico in ostrogoto.  Lui no: lui è andato dritto al nocciolo e tanto peggio per chi non ci stava.  La nuova legge serve a facilitare le assunzioni dei giovani e chi ci sciopererà contro sciopererà contro i propri figli.  Basta e amen.  Del fatto che, stando alla logica del provvedimento, l’assunzione dei figli in questione sarà soprattutto una conseguenza dal previo licenziamento dei padri, e che i nuovi assunti (se ce ne saranno), potranno essere licenziati a loro volta in qualsiasi momento e senza motivo alcuno, con tutti gli ovvi vantaggi per quel padronato di cui, peraltro, fa parte, non ha ritenuto necessario accennare.  Promanava dalle sue parole quella tranquilla impudicizia di chi sa che, probabilmente, non gli crederà nessuno (perché mi piacerebbe davvero trovare qualcuno convinto in tutta sincerità che quella “riforma” la Confindustria l’ha voluta per incrementare l’occupazione), ma non gliene importa assolutamente niente.  A me, per fare un paragone che non dovrebbe essergli sgradito, ha ricordato Ottaviano Augusto, in quel famoso passaggio delle sue memorie in cui definisce l’istituzione dell’Impero come una “restaurazione della repubblica”.   Anche l’erede di Cesare, cui non faceva certo difetto l’intelligenza, non poteva sperare davvero di far ingoiare a tutti quella definizione, ma perché avrebbe dovuto preoccuparsene?  Aveva alle spalle un potente apparato di propaganda, in cui militavano, con maggiore o minore entusiasmo, personaggi del calibro di Orazio, Tito Livio e Virgilio, e – soprattutto – sapeva che nessuno avrebbe avuto il coraggio di protestare o i modi per esternare la sua protesta.  Per cui…
        Certo, Berlusconi, a prima vista, non fa pensare esattamente agli antichi romani, come i suoi zelatori televisivi hanno ben poco a che fare con Orazio o Virgilio.   Ma qualcosa, dai tanto vantati studi classici presso i salesiani, deve averlo davvero imparato.  Se invece di avventurarsi sull’infido terreno dell’edilizia, della televisione e della politica si fosse dedicato alle lettere, avrebbe potuto essere un eccellente autore di suasoriae: sapete, quel genere di orazioni fittizie in cui l’autore cerca di capovolgere i luoghi comuni tramandato, sforzandosi, per esempio, di persuadere Elena a non fuggire con Paride o esortando i Troiani a non trascinare in città quello strano cavallo di legno.   È un genere elegante, molto apprezzato nelle scuole, e, soprattutto, non ha nulla a che fare con la verità.  E anche se di solito non è consigliabile misurarsi con i classici sul loro stesso terreno, resta vero che noi moderni possiamo avvalerci dell’esperienza e dei modelli degli antichi, perché siamo, secondo la celebre formula classicistica, dei nani appollaiati sulle spalle dei giganti.  Ma forse non è questa la formula che si possa applicare a un uomo che si preoccupa tanto della sua altezza.


Permettetemi una chiosa, tanto per rispettare la par condicio. Se il Presidente del Consiglio è un maestro nel genere persuasorio, non si può negare che i suoi avversari eccellano in un'altra forma retorica cara alle antiche scuole di eloquenza: quella delle controversiae.  Peccato, soltanto, che preferiscano controvertere solo e sempre tra di loro.  Così, per citare un esempio recente, sono stato particolarmente colpito dal comunicato con cui la segreteria CGIL ha precisato, questo mercoledì, che alla manifestazione di sabato prossimo a Roma, nessuno aveva la minima intenzione di far parlare dal palco un esponente del movimento No Global.  In fondo, ci sarebbero stati tanti modi per motivare un rifiuto del genere: facendo notare, per esempio, come un’organizzazione che ha già i suoi guai di dialettica interna non possa permettersi di offrire una tribuna a forze, gruppi e individui  che quella dialettica potrebbero, magari involontariamente, mettere a repentaglio.  Invece no.  Hanno dichiarato, con un senso delle distinzioni che farebbe onore a un teologo bizantino, che la manifestazione, pur aperta alla partecipazione (“apprezzata”, per carità, apprezzatissima) di movimenti e partiti, avrà un “carattere sindacale” che non può che escludere “interventi di organizzazioni e movimenti politici e sociali”.   E fin qui passi: il guaio è che l’estensore ha sentito il bisogno di precisare che in piazza parleranno, oltre al segretario generale della confederazione, solo “persone che lavorano, studiano o sono in pensione”.  Che probabilmente era solo una excusatio non petita, il tentativo di negare in anticipo l’accusa di voler riservare il palco ai soliti funzionari e burocrati, ma letto con spirito appena un po’ critico suona come un modo particolarmente goffo per rivendicare a priori una rappresentanza esclusiva e senza residui di queste tre componenti sociali, dando, en passant, ai propri interlocutori degli analfabeti e degli oziosi, nel senso di gente che non studia, non lavora e non ha mai lavorato (che altrimenti sarebbe in pensione).   Sbaglierò, ma non mi sembra un approccio particolarmente brillante al tema dell’unità e del pluralismo delle forze di opposizione.  Speriamo solo che Berlusconi ne dica presto una delle sue, perché senza la sua collaborazione riusciamo solo a farci del male.

17.03.’02