Ogni tanto, spigolando nel campo delle
comunicazioni di massa, capita di imbattersi in autentici fossili ideologici,
in veri e propri frammenti del passato conservati, chissà come, per la
gioia degli studiosi. Appartiene a questa preziosa categoria il lamento
di un signore di Pinerolo che questa settimana mi è capitato di leggere,
non senza commozione, sulla rubrica delle lettere dei lettori de “L’Espresso”
(che adesso si chiama “Forum” ed è accessibile grazie a un indirizzo
e-mail, ma di una rubrica di lettere dei lettori sempre si tratta). Il
lettore in questione è addolorato per la presenza nella lingua italiana
contemporanea di troppi termini inglesi: una posizione, in sé, affatto
legittima, perché tutti sono liberi di addolorarsi per quello che vogliono,
ma meno facile da motivare sul piano scientifico di quanto non sembri.
Infatti, dopo aver notato che “tutti i popoli conquistatori hanno
sempre imposto, innanzi tutto, la loro lingua”, tanto è vero che “le
lingue che parliamo oggi nel sud-ovest europeo … provengono dall’imposizione
del latino”, e fin qui tutto bene, o quasi, lo sciagurato si lancia in
distinzioni davvero un po’ dubbie. “Il latino – scrive – era
una lingua ricca ed evoluta. L’inglese risulta invece un linguaggio
residuale, a struttura gergale, mezzo espressivo di un popolo mercantile-imperialista”,
per cui non può che deturpare l’italiano con un’alluvione di “strutture
idiomatico-gergali” e di “vocaboli imprecisi e vaghi”. Il fenomeno,
a suo avviso, è “concomitante e parallelo al progredire dell’ignoranza
e dell’infantilismo popolari” e rappresenta “un problema di primaria
importanza per chi voglia reagire a tale andazzo”. Eccetera.
Il
lettore non del tutto digiuno di linguistica scuote la testa. Pover’uomo,
pensa. Siamo nel 2000 e questo onesto lettore de “L’Espresso”,
un settimanale – oltretutto – di grandi tradizioni democratiche, pur
di sacramentare contro l’ignoranza e l’infantilismo del popolo, che è
una cosa che fa sempre piacere, deve ricorrere alle più dubbie attribuzioni
di valore. Protesta perché l’italiano è contaminato da un’altra
lingua, ma non ha il coraggio di richiamarsi espressamente alla grande
tradizione del purismo. Probabilmente sa che, come scuola di pensiero,
il purismo oggi non va più che tanto, che di Basilio Puoti non si ricorda
nessuno e che l’Accademia della Crusca si è vista recentemente tagliare
i contributi ministeriali. Cerca allora con zelo di giustificare
la sua ostilità in termini storico-strutturali, ma di fronte alla manifesta
difficoltà di spiegare di che cosa l’inglese vada considerato un residuo
e in che senso la sua struttura possa definirsi gergale, rivela inesorabilmente
la propria corda ideologica. Non ha nulla di meglio da dire che da
un popolo a vocazione mercantile e imperialista come quello inglese non
ci si può aspettare niente di buono, con il che non soltanto rievoca il
“dio stramaledica gli inglesi” di mussoliniana memoria, ma si caccia
nella più nera delle contraddizioni, visto che all’inglese vuol contrapporre
il latino e di gente più portata all’imperialismo e all’esercizio intensivo
del commercio dei padri Romani non è proprio facile trovarne. Si
fosse limitato a dire, come insegnavano a me alle elementari, che l’italiano
ha una ben più nobile tradizione culturale o che trattasi di lingua molto
più musicale e armoniosa, se la sarebbe un cavata con una semplice imputazione
di banalità. Invece ha voluto strafare, tirando in ballo il latino,
e così ci ha rivelato non soltanto di nutrire, come dire, delle tendenze
un po’ fascisteggianti, il che per un lettore de “L’Espresso” non sta
mai bene, ma di essere più ignorante della tradizionale capra.
L’inglese
e il latino, però, non c’entrano quasi niente. Le lingue non sono
delle “cose”, non sono delle entità che si possono sovrapporre l’una
all’altra, per decidere, in base a un qualche criterio, quale sia la più
bella o quale la più grande. Le lingue sono dei complessi sistemi
di operazioni che creiamo e utilizziamo noi, per rendere pubbliche le operazioni
che compiamo privatamente a livello mentale, e, visto che, fino a prova
contraria, la mente è la stessa per tutti, sono anch’esse, in sostanza,
tutte uguali. Quel poco che le diversifica l’una dall’altra, che
fa sì che chi parla abitualmente il cinese abbia qualche problema per comprendere
in tutte le sue sfumature il dialetto astigiano, dipende soltanto dalla
differenza delle situazioni, temporali, locali e sociali, in cui le impieghiamo.
Infatti i problemi di comprensione, nonostante tutto, sono sempre
superabili con un po’ di sforzo; nulla osta a che un cinese riesca a imparare
l’astigiano e viceversa e qualsiasi testo può essere tranquillamente tradotto
da qualsiasi lingua in qualsiasi altra. Il fatto che l’unica umanità
di cui facciamo parte tutti abbia sviluppato, secondo gli ultimi calcoli,
cinque o seimila lingue principali diverse, può causarci qualche problema
pratico, ma, nel complesso, va considerato una ricchezza comune. E
il fatto che queste lingue possano fondersi, mescolarsi, influenzarsi l’una
con l’altra, oltre a rappresentare un ulteriore arricchimento, significa
soltanto che noi uomini siamo liberi di avere con i nostri simili tutte
le relazioni che vogliamo e ci mancherebbe che qualcuno cercasse di impedircelo.
Ahimè,
c’è sempre qualcuno che cerca, per un motivo o per l’altro, di impedircelo.
E visto che spesso, di questi tempi, si vergogna di dirlo espressamente,
o ha comunque i suoi motivi per non farlo, talvolta lo dichiara in via
implicita, ricorrendo a qualche argomentazione collaterale, come appunto
quelle linguistiche. Datemi retta: ogni volta che sentite qualcuno
lamentarsi della decadenza della nostra bella lingua, stateci attenti.
Magari lui non lo sa, ma al fatto che tutti gli uomini siano uguali
(e abbiano, quindi, tutti gli stessi diritti) quel tipo lì non è mai riuscito
a crederci completamente.
13.02.’00