Vi dirò, a rischio di passare, una volta
di più, per il solito rompiscatole, che non sono stato particolarmente
entusiasta nel ricevere, al posto del tradizionale certificato, una “tessera
elettorale” valida per partecipare nientemeno che a diciotto votazioni.
E non tanto perché la prospettiva di dover affrontare diciotto campagne
elettorali nei non moltissimi anni che presumibilmente mi restano, mi sembra
quanto di più deprimente si possa immaginare: quello certo è un problema,
ma è un problema mio e non escludo che l’idea possa colmare di genuino
entusiasmo un elettore più giovane ed entusiasta. È la natura stessa
di quel documento che mi sembra dar adito a qualche ragionevole perplessità.
Capirete, una tessera “strettamente personale” a “carattere permanente”
non è una cosa da poco. Di istituzioni a carattere permanente, in
Italia, a parte l’ergastolo, non ce ne sono poi molte: non sono permanenti,
se non mi sbaglio, nemmeno i documenti di identità. Questa, poi,
è una carta che il titolare, come gli si intima nella lettera di accompagnamento,
è tenuto a conservare con cura; che in caso di variazione dei dati va scrupolosamente
aggiornata, sempre a cura del titolare, mediante l’applicazione di appositi
tagliandi autoadesivi; che in caso di furto o smarrimento (succede) comporta
una denuncia presso i competenti uffici di pubblica sicurezza e che va
debitamente consegnata alle autorità municipali in caso di trasferimento
in un altro Comune. Si tratta, insomma, di un documento che impone
a chi lo detiene un certo numero di obblighi e impegni, pena la rinuncia
all’esercizio del diritto di voto, il che porta la normativa elettorale
italiana, se non proprio al livello degli Stati Uniti e degli altri paesi
in cui per votare bisogna darsi la pena di registrarsi presso un apposito
ufficio, certo in quella direzione. E, come succede in quei paesi,
la cosa contribuirà, senza dubbio, a ridurre in qualche misura il numero
dei votanti, a onta e scorno delle deprecazioni che si levano a ogni chiamata
alle urne sul pericolo dell’astensionismo. E anche chi a quel pericolo
personalmente non crede, anche il più accanito degli astensionisti non
trarrà certo una gran soddisfazione dall’idea di un concittadino che se
non va a votare non lo fa per scelta consapevole, perché razionalmente
convinto che si tratti di una pratica da cui, per un motivo o per l’altro,
è opportuno astenersi, ma perché proprio non ricorda in che cassetto è
finita la maledetta tessera e non ha voglia, tempo o disposizione di andare
in Questura per la denuncia di smarrimento e in Comune per chiedere il
duplicato.
Corre
voce che l’introduzione del nuovo sistema sia dovuta a motivi prettamente
economici. Allo Stato costa meno mandare una tantum a ogni cittadino
maggiorenne la sua brava tessera, raccomandandogli di conservarla con cura,
piuttosto che far stampare e recapitare altrettanti certificati a ogni
turno elettorale o referendario. Sarà vero, naturalmente: con questi
chiari di luna ogni soldo risparmiato è un soldo guadagnato e, come insegna
il pio Formigoni, la necessità di risparmiare qualche miliardo giustifica
le richieste più stravaganti. Ma resta vero, se si bada alla sostanza
dei fatti, che ci sono cose su cui non è proprio il caso di risparmiare
e che un’innovazione che rende più difficile al cittadino l’esercizio
di un diritto fondamentale non può essere fatta passare per una semplice
misura di razionalizzazione contabile. E poi, non datemi del paranoico,
ma a me l’idea di un documento dalla consultazione del quale risulti chiaramente
quante e quali volte ho votato nelle ultime diciotto consultazioni, non
so che dirvi, ma proprio non va. Io voglio poter votare o non votare
a seconda delle mie valutazioni contingenti e non desidero che queste mie
scelte siano attestate su una tessera che mi può essere richiesto di esibire.
So che quei dati erano recuperabili dai registri elettorali anche
con il vecchio sistema, ma c’è una bella differenza, nonostante tutto,
tra un’annotazione su un atto riservato e quella che risulta da un documento
di immediata lettura. So che per molti a non fidarsi del governo,
di questi tempi, si fa peccato, ma permetterete che di fronte a un provvedimento
che significa, in sostanza, una diminuzione dei diritti e un aumento del
controllo io dichiari pubblicamente che proprio non mi fido.
C. Oliva, 22.04.’01