Mi spiace, ma non riesco proprio a rallegrarmi per la
condanna del senatore Dell’Utri. Sarà un tipaccio, non ne dubito,
e un eminente nemico del popolo, artefice sommo dell’ascesa di Berlusconi
e capace di intrattenere rapporti con la peggio gente sulla piazza, come
del resto è ovvio per uno che ha fatto carriera vendendo spazi pubblicitari,
ma una condanna per “partecipazione esterna” a un’organizzazione (o
“concorso esterno a partecipazione”, non ricordo bene) non mi sembra
qualcosa che si possa, in coscienza, approvare. Lo vieta, se non
altro, la logica: se a una organizzazione, quale che sia, si partecipa,
vuol dire che al suo interno, in un modo o nell’altro, si sta; se invece
ce ne si tiene all’esterno, si potrà forse collaborare, concorrere o che
altro volete, ma partecipare, proprio non si partecipa. La formula,
naturalmente, non è stata inventata dai giudici da Paleremo: immagino,
anzi, che sia prevista dalla legge e sia stata elaborata dai più illustri
dei giureconsulti per allargare lo spettro dei comportamenti punibili,
ma quando i magistrati cominciano a preoccuparsi, appunto, più della punibilità
che della logica dell’accusa, il cittadino ha tutti i diritti di preoccuparsi.
È difficile non pensare che un’accusa di partecipazione esterna
serva soprattutto nei casi in cui gli inquirenti non siano riusciti a provare
che c’è stata una partecipazione normale. Il fatto che, oggi, a
essere colpito sia un pezzo grosso dell’area governativa non vuol dire
niente. Tra l’altro, non mi sembra che con strumenti del genere
la lotta alla mafia abbia fatto dei gran passi in avanti.
Questo non significa,
naturalmente, che il senatore Dell’Utri sia un perseguitato o che i suoi
amici abbiano, in tema di diritto, sempre ragione. Non significa
che si possano inserire in un disegno di legge concepito con tutt’altro
scopo delle norme che, tutti sanno perché, abbreviano i tempi di prescrizione,
o che ci si possa sbarazzare con un’alzata di spalle delle ragionevoli
obiezioni che il buon Ciampi, per una volta, ha mosso alla presunta riforma
dell’ordinamento giuridico. Significa, però, che il problema della
giustizia in questo paese non lo si può risolvere soltanto con la difesa
a oltranza dell’esistente. La lunga rissa che ferve da anni attorno
ai giudici e ai loro poteri tende a configurarsi sempre di più come uno
scontro di interessi privati e di casta, tipo “noi vi togliamo più poteri
che possiamo perché se no ci condannate” e “provate solo a toccarci e
vedrete cosa vi succede”. Dei problemi del cittadino normale, della
macchinosità di tutto il sistema, dei tempi e dei costi assurdi, delle
altre distorsioni che lo caratterizzano sembra che si preoccupi alcuno.
Non se ne preoccupa,
in particolare, una sinistra che si mostra sempre più convinta che basti,
per avere la coscienza a posto, dare sempre e comunque ragione ai giudici
e – più che ai giudici – alle Procure, tanto è vero che i suoi esponenti
hanno fatto un discreto casino per la condanna di Dell’Utri, la prescrizione
a Berlusconi e il salvacondotto a Previti, ma non hanno speso una parola
sull’aumento delle pene e il peggioramento del trattamento dei recidivi,
che servirà, più che a combattere, come si dice, la delinquenza, ad aumentare
il numero dei poveri cristi in galera. Sarà perché su questo, probabilmente,
i magistrati sono d’accordo o perché un interesse troppo concentrato sui
casi personali tende a distrarre dai problemi di insieme. Ed è un
bel guaio perché presto o tardi il centro destra se ne andrà e i Previti
e i Dell’Utri smetteranno di nuocere, ma con certe leggi borboniche e
illiberali dovremo continuare a fare i conti.
19.12.’04