Scagli la prima pietra chi, tra gli
affezionati ascoltatori della “Caccia”, giovedì scorso non si è lasciato
sfiorare dalla speranza, da una speranza vaga, segreta e accuratamente
inespressa, che il buon Carlo Azeglio Ciampi, nonostante tutto, non ce
la facesse: che al primo scrutinio non ottenesse quella valanga di voti
che l’accordo tra il Polo e l’Ulivo (ammesso che questi due strani termini
abbiano ancora ragione di esistere) sulla carta gli garantiva. Una
speranza, in fondo, tutt’altro che peregrina, perché a spoglio effettuato
si è visto che il neopresidente dei duecento e passa voti di agio sul quorum
che in teoria gli si accreditavano ne aveva raccolto solo trentatré, e
tutti sappiamo che se non fosse passato al primo scrutinio ben difficilmente
sarebbe arrivato alla meta, e una speranza di cui, forse, ci saremmo rammaricati
per primi se si fosse realizzata, ma una speranza – inutile negarlo –
che ci ha segretamente sfiorati tutti. E non perché qualcuno di noi,
dio ne scampi, avesse motivo di favorire i disegni di Franco Marini, o
perché a Ciampi preferissimo veder insediato sul Colle uno dei suoi improbabili
e un po’ patetici concorrenti. Nessuno di noi si azzarderebbe a
negare i meriti dell’economista insigne, dell’irriducibile laico e dell’antifascista
della prima ora, e se pure preferiremmo un economista che, oltre che della
solidità della moneta, si preoccupasse ogni tanto di una sua meno iniqua
distribuzione, e un laico che non avesse fatto una così prestigiosa carriera
pubblica ai tempi del potere democristiano, e un antifascista che non dovesse
dipendere, per essere eletto, dai voti determinanti di Alleanza Nazionale,
sappiamo che nella vita non si può avere tutto. È da tre giorni che
tutti ci assicurano che il Carlo Azeglio è il migliore dei presidenti possibili,
un giudizio su cui convergono, oltre che partiti e giornali, i vescovi,
il Grande Oriente, il Comitato dei 10 Nobel e i pescivendoli di Santa Severa,
e non intendiamo certo mettere in discussione tanta unanimità. Siamo
certi che tutti avranno i loro buoni motivi.
Eppure,
ammettiamolo, c’è qualcosa che ancora non ci convince. Forse il
sospetto che il Presidente della Repubblica, anche se “rappresenta l’unità
nazionale”, come recita la Costituzione all’articolo 87, non per questo
debba essere espresso all’unanimità, o quasi. Dell’unanimità, in
politica, è sempre cosa saggia diffidare e la funzione del Presidente,
nonostante l’altezza della sua posizione, resta pur sempre politica. Quando
i nodi vengono al pettine, deve schierarsi anche lui. E visto che
il capo dello stato, come qualsiasi organo elettivo, deve comunque “rispondere”
al suo elettorato, l’idea di un Presidente tenuto a esprimere contemporaneamente
le ragioni della destra e quelle della sinistra, impossibilitato a formulare
una scelta a rischio di scontentare una parte che comunque a lui si riferisce,
chissà perché, non ci tranquillizza affatto.
Sì,
d’accordo, ci ribattono, tutto questo sarà vero in teoria, ma – ahimè
– c’è la guerra. E con una guerra in corso non ci potevamo certo
permettere lo spettacolo di un Parlamento diviso, spaccato in due, incapace
di eleggere un Presidente della Repubblica. Il voto di giovedì ha
confermato l’unità e l’impegno con cui il Paese affronta questo momento
drammatico.
Ecco:
forse è proprio per questo, a pensarci bene, che non ci siamo. E
non solo perché quanto è più grave il problema all’ordine del giorno (e
pochi problemi possono essere più gravi di quello della guerra), tanto
è più auspicabile che ci si divida, che ciascuno si schieri e dica la sua
senza mezzi termini. Ma perché sulla guerra il nuovo Presidente della
Repubblica è stato praticamente l’unico uomo politico di un certo peso
(e l’unico candidato all’alta carica), che non ha detto niente. Non
una singola, solitaria parola. Non ha espresso una speranza di pace,
e non era tenuto a farlo, e non si è schierato con quanti si sono assunti
la responsabilità di attaccare. Ha taciuto. Sicuramente ci
chiarirà quanto prima il suo illuminato parere, probabilmente in occasione
del discorso di insediamento previsto per il prossimo martedì, ma dire
quel che si pensa dopo aver portato a casa il risultato è un po’ troppo
facile: l’argomento non è di quelli su cui si possa invocare la necessità
del riserbo. Quando è fin troppo evidente che a parlare si scontenterebbe
comunque qualcuno, qualcuno in grado di controllare dei voti, il riserbo
rischia di sfumare nell’opportunismo. Non esattamente la dote che
si dovrebbe auspicare in un Presidente della Repubblica.
* * *
Oh, a proposito. Non sono stati
in moltissimi a osservare che, da qualche anno a questa parte, ogni elezione
alla Presidenza della Repubblica ha assunto un carattere, come dire, altamente
aleatorio. È dal 1978, in fondo, che i presidenti vengono scelti
soprattutto per contrasto con il loro immediato predecessore. Pertini
fu eletto, contro tutti i pronostici, perché si aveva disperatamente bisogno
di qualcuno che incarnasse un tipo politico opposto a quello del notabile
democristiano stile Leone; Cossiga ascese al Colle perché i grandi elettori,
pur senza dichiararlo, cercavano qualcuno più rispettoso di Pertini delle
ritualità politiche di un sistema parlamentare e Scalfaro fu selezionato
in nome di una sua supposta riluttanza a quelle incontrollabili “esternazioni”
e alle imprevedibili iniziative che avevano caratterizzato il settennato
di Cossiga. E tutti sappiamo che, se con Pertini la scommessa pagò
anche troppo, con gli altri due fu un tonfo clamoroso: Cossiga non fece
altro che portare il pertinismo alle sue ovvie conseguenze e Scalfaro cominciò
dove Cossiga si era fermato. Anche Ciampi, mi sembra di capire, deve
le sue fortune al fatto che lo si suppone orientato in senso meno “centrista”
e meno parlamentarista di Scalfaro, meno propenso, in buona sostanza, ai
vari modelli di ribaltone e più deciso ad attenersi alle leggi non scritte
del bipolarismo. Vista l’esperienza del passato, a chi ha ragionato
in tal modo non saprei consigliare altro che tenere le dita saldamente
incrociate.
16.05.’99