Dunque, Adriano Sofri, commentando con
la consueta dignità l’ennesima sentenza emessa a suo danno dalla magistratura
italiana (una sentenza che nemmeno i più irriducibili giustizialisti hanno
avuto il cuore di approvare e che è stata accolta dai suoi stessi nemici
con il più profondo imbarazzo), ha dichiarato che, visto che il suo stato
di prigioniero gli impedisce di decidere che cosa fare, gli resta soltanto
la possibilità di impegnarsi a non fare certe cose. E che le decisioni
che si sente di escludere, in prima battuta, sono due: chiedere la grazia
e commettere suicidio. Poi si vedrà.
Queste
dichiarazioni sono apparse, in genere senza commento, sui i giornali di
ieri. Tutti, a quanto pare, le hanno considerate normalissime. Nessuno
ha sentito il bisogno di smontare, o semplicemente di sottolineare, lo
strano parallelismo tra i due propositi negativi dell’ex leader di Lotta
Continua. Che egli si risolva a chiedere la grazia, evidentemente,
o che finalmente decida di farla finita una volta per tutte sembrano, ai
più, due ipotesi affatto normali.
Strano.
Perché il discorso della grazia, naturalmente, accompagna da tempo
il dibattito sul processo Sofri-Calabresi. A chiedere un atto di
clemenza gli imputati si sono sentiti ripetutamente esortare: uno di essi,
anzi, lo ha fatto e non pochi cittadini di buoni sentimenti si sono presi
la responsabilità di invocarlo per tutti e tre. Mi sembra di ricordare
che al presidente Scalfaro, che rifiutò, siano state presentate le firme
di una petizione popolare in tal senso. All’argomento del “tanto
gli daranno la grazia ” ricorse, se non mi sbaglio, un magistrato di Corte
d’Assise per strappare a un paio di giurati riluttanti l’assenso a un
verdetto di condanna. E di quello del “basterebbe che si pentisse
e gli darebbero la grazia” si è servito, forse a scarico di coscienza,
lo stesso Marino. Anche i giudici del processo veneziano di revisione,
nella loro sentenza, hanno adombrato uno scenario del genere, spiegando
come di tenere in galera i tre personaggi di cui confermavano la condanna
non ci fosse, in sostanza, motivo. La concessione della grazia non
rappresenterebbe certo la soluzione ottimale, non almeno per chi non crede,
come me, alla colpevolezza di Sofri e dei suoi amici, perché il piano della
clemenza non ha nulla a che fare con quello della giustizia, ma sarebbe
l’ideale per chi non si pone problemi del genere. E in ogni caso,
con la sentenza di giovedì scorso la possibilità di fare giustizia su tutta
la faccenda mi sembra si sia persa per sempre.
Ma
il suicidio, che pure, nelle carceri italiane, non è una via di uscita
del tutto sconosciuta, a Sofri finora, non l’aveva proposto nessuno. Nessuno
dei giornalisti ammessi nel carcere di Pisa gli avrà chiesto: “Scusi,
adesso che, pur così manifestamente innocente, è stato confinato in galera
per i prossimi diciassette anni, non prenderebbe in considerazione l’ipotesi
di suicidarsi?” Sono cose, naturalmente, che non si dicono.
Eppure, sembra proprio che molti una
domanda del genere l’avessero in mente. Tanto è vero che quando
l’ipotesi è comparsa, come un fantasma, nelle interviste del giorno dopo,
l’hanno accolta con molta serenità. Era come se, in un certo stesso,
se l’aspettassero. “Buone notizie”, hanno intitolato i giornali,
“Sofri non si suicida”. Mancava solo che ci aggiungessero, come
commento, “Peccato!” Perché anche quella della scomparsa fisica,
naturalmente, è una soluzione. E di una soluzione qualsiasi, a questo
punto, si sente davvero il bisogno.
In
ogni caso, non dobbiamo dimenticare che Adriano Sofri non è stato condannato,
per così dire, in proprio. Sul suo destino personale ha pesato (e
pesa) come un macigno la condanna definitiva del movimento politico di
cui è stato un esponente tanto significativo. Non di Lotta Continua,
naturalmente, che ne ha rappresentato soltanto una, se pur ragionevole,
scheggia, ma del complesso di giovani uomini e giovani donne che si sforzarono,
allora, senza troppa saggezza, di esprimere e realizzare la speranza di
cambiare lo stato di cose presente.
Ora, quel movimento ha avuto esattamente
la sorte che Sofri rifiuta. In parte ha chiesto la grazia e in parte
si è suicidato. Non c’è da stupirsi se chi, per un’assurda concatenazione
di eventi e a dispetto della sua stessa evoluzione personale, ha finito
per assumere il ruolo di capro espiatorio di tutta quella fase storica,
non voglia, per sé, quell’alternativa (C.O.)
08.10.’00