Soluzioni parallele

La caccia | Trasmessa il: 10/08/2000



Dunque, Adriano Sofri, commentando con la consueta dignità l’ennesima sentenza emessa a suo danno dalla magistratura italiana (una sentenza che nemmeno i più irriducibili giustizialisti hanno avuto il cuore di approvare e che è stata accolta dai suoi stessi nemici con il più profondo imbarazzo), ha dichiarato che, visto che il suo stato di prigioniero gli impedisce di decidere che cosa fare, gli resta soltanto la possibilità di impegnarsi a non fare certe cose.  E che le decisioni che si sente di escludere, in prima battuta, sono due: chiedere la grazia e commettere suicidio.  Poi si vedrà.
        Queste dichiarazioni sono apparse, in genere senza commento, sui i giornali di ieri.   Tutti, a quanto pare, le hanno considerate normalissime.  Nessuno ha sentito il bisogno di smontare, o semplicemente di sottolineare, lo strano parallelismo tra i due propositi negativi dell’ex leader di Lotta Continua.  Che egli si risolva a chiedere la grazia, evidentemente, o che finalmente decida di farla finita una volta per tutte sembrano, ai più, due ipotesi affatto normali.
        Strano.  Perché il discorso della grazia, naturalmente, accompagna da tempo il dibattito sul processo Sofri-Calabresi.  A chiedere un atto di clemenza gli imputati si sono sentiti ripetutamente esortare: uno di essi, anzi, lo ha fatto e non pochi cittadini di buoni sentimenti si sono presi la responsabilità di invocarlo per tutti e tre.  Mi sembra di ricordare che al presidente Scalfaro, che rifiutò, siano state presentate le firme di una petizione popolare in tal senso.   All’argomento del “tanto gli daranno la grazia ” ricorse, se non mi sbaglio, un magistrato di Corte d’Assise per strappare a un paio di giurati riluttanti l’assenso a un verdetto di condanna.   E di quello del “basterebbe che si pentisse e gli darebbero la grazia” si è servito, forse a scarico di coscienza, lo stesso Marino.  Anche i giudici del processo veneziano di revisione, nella loro sentenza, hanno adombrato uno scenario del genere, spiegando come di tenere in galera i tre personaggi di cui confermavano la condanna non ci fosse, in sostanza, motivo.  La concessione della grazia non rappresenterebbe certo la soluzione ottimale, non almeno per chi non crede, come me, alla colpevolezza di Sofri e dei suoi amici, perché il piano della clemenza non ha nulla a che fare con quello della giustizia, ma sarebbe l’ideale per chi non si pone problemi del genere.  E in ogni caso, con la sentenza di giovedì scorso la possibilità di fare giustizia su tutta la faccenda mi sembra si sia persa per sempre.
        Ma il suicidio, che pure, nelle carceri italiane, non è una via di uscita del tutto sconosciuta, a Sofri finora, non l’aveva proposto nessuno.  Nessuno dei giornalisti ammessi nel carcere di Pisa gli avrà chiesto:  “Scusi, adesso che, pur così manifestamente innocente, è stato confinato in galera per i prossimi diciassette anni, non prenderebbe in considerazione l’ipotesi di suicidarsi?”  Sono cose, naturalmente, che non si dicono.
Eppure, sembra proprio che molti una domanda del genere l’avessero in mente.  Tanto è vero che quando l’ipotesi è comparsa, come un fantasma, nelle interviste del giorno dopo, l’hanno accolta con molta serenità.  Era come se, in un certo stesso, se l’aspettassero.  “Buone notizie”, hanno intitolato i giornali, “Sofri non si suicida”.  Mancava solo che ci aggiungessero, come commento, “Peccato!”   Perché anche quella della scomparsa fisica, naturalmente, è una soluzione.  E di una soluzione qualsiasi, a questo punto, si sente davvero il bisogno.
        In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che Adriano Sofri non è stato condannato, per così dire, in proprio.  Sul suo destino personale ha pesato (e pesa) come un macigno la condanna definitiva del movimento politico di cui è stato un esponente tanto significativo.  Non di Lotta Continua, naturalmente, che ne ha rappresentato soltanto una, se pur ragionevole, scheggia, ma del complesso di giovani uomini e giovani donne che si sforzarono, allora, senza troppa saggezza, di esprimere e realizzare la speranza di cambiare lo stato di cose presente.
Ora, quel movimento ha avuto esattamente la sorte che Sofri rifiuta.  In parte ha chiesto la grazia e in parte si è suicidato.   Non c’è da stupirsi se chi, per un’assurda concatenazione di eventi e a dispetto della sua stessa evoluzione personale, ha finito per assumere il ruolo di capro espiatorio di tutta quella fase storica, non voglia, per sé, quell’alternativa (C.O.)

08.10.’00