Non so voi, ma io non sono abbastanza addentro alle minutiae del sistema
giuridico americano per capire cosa intendesse dire davvero la Suprema
Corte degli Stati Uniti affermando, con l’ormai celebre pronuncia di mercoledì
scorso, che era ormai evidente come “qualsiasi conteggio” che cercasse
di “rispettare la scadenza del 15 dicembre” sarebbe stato “incostituzionale”.
Non mi risulta che nella Costituzione di quel grande paese esista
una norma che vieti a un conteggio di cercare di rispettare una scadenza
(e sarebbe ben strano se ci fosse), né sono riuscito a trovare in quelle
parole una logica qualsiasi. E certo nessun giornale tra i tanti
che le hanno riportate tra virgolette ha sentito il bisogno di spiegarne
l’occulto significato a uso dei propri lettori. I quali, d’altronde,
non si saranno sentiti più defraudati che tanto, perché era abbastanza
ovvio che l’alto consesso si era limitato a decidere che, visto l’impasse
in cui si era finiti, con Bush proclamato vincitore da un’autorità competente,
ancorché un po’ parziale, come il governo della Florida, e Gore che guadagnava
qualche centinaio di voti ogni volta che si ricontavano le schede, tanto
valeva darci un taglio, smettere di contare e dare via libera al candidato
repubblicano. L’idea che gli Stati Uniti rischiassero di essere
governati per quattro anni da un signore che ha certamente ottenuto meno
voti popolari del suo rivale e forse non ha vinto neanche in Florida, avrà
forse indotto nell’animo di quegli alti magistrati qualche guizzo di personale
preoccupazione, ma non poteva essere sufficiente a farli deliberare in
altro modo. La logica che ha presieduto alla loro pronuncia è quella
della solidarietà del potere, quella per cui non è mai possibile negare
in nome di un principio giuridico delle decisioni assunte da un corpo politico
riconosciuto, e non credo che in essa abbia pesato il fatto che cinque
giudici su nove simpatizzassero ideologicamente per il neoeletto. Se
a essere stato proclamato vincitore in circostanze altrettanto dubbie fosse
stato Gore, avrebbero dato ragione a lui. Era ovvio che, di fronte
a uno scarto così insignificante la soluzione più giusta sarebbe stata
quella di contare e ricontare quelle maledette schede fino a raggiungere
una ragionevole sicurezza, ma se si comincia a cassare la decisione di
un governo in base a un criterio di giustizia, non si sa proprio più dove
si va a finire. Il primo a rendersene conto è stato proprio Gore,
che, naturalmente, è un politico e, infatti, dopo qualche capriccio iniziale
(poca cosa, se si pensa al giocattolo che gli hanno portato via…) si è
affrettato ad allinearsi alla decisione.
La stessa logica, in fondo, mi sembra possa
servire a spiegare la decisione del papa di ricevere, ieri, il governatore
della Carinzia, nonostante tutti i casini ideologici che la presenza di
quell’odioso cruccaccio in Vaticano non poteva non suscitare. Era
evidente che il povero vecchio Karol a quella visita si è rassegnato con
una certa ostentata riluttanza e che ha cercato di darle, com’è stato
detto, il profilo più basso possibile. Non abbastanza basso, comunque,
da poter dire al suo ospite, con quella sua severità da padre affettuoso
che non ha mai esitato a usare nei riguardi di teologi della liberazione,
missionari preoccupati dal diffondersi dell’AIDS, fautori del sacerdozio
femminile e altri reprobi, “guardi, caro presidente, che quelle sue idee
a me fanno proprio schifo e comunque a noi polacchi voi austriaci siete
quasi altrettanto antipatici di quanto noi lo siamo a voi.” Macché.
Gli ha regalato un suo testo sull’amore universale, ben sapendo,
naturalmente, che l’individuo si sarebbe ben guardato dal leggerlo, e
ha balbettato qualcosa sul fatto che in Vaticano il dono dell’albero di
Natale della Carinzia l’avevano accettato almeno quattro anni fa, quando
a un Haider leader politico nazionale non pensava nessuno. Una scena,
con rispetto parlando, piuttosto penosa.
Ma che ci poteva fare, in fondo, l’anziano
pontefice? Haider, con tutti i suoi difetti, resta comunque un potente
(nel senso che è l’autorevole leader di un ricco paese cattolico), non
è un qualsiasi prete ministro sandinista, che si può prendere a pesci in
faccia senza problemi. È antipatico, certo, e molto inopportuno,
perché da voce a certi risvolti del pensiero cristiano che la chiesa, pur
senza avere né la forza né la volontà di estirpare, preferirebbe
restassero inespressi. Ma è un potente, un collega sul piano della
potenza terrena e tra potenti ci si può combattere, se si vuole, ma non
ci si ignora mai.
Alcuni critici hanno fatto notare come, nonostante
tutti i distinguo che ha cercato di tirare in ballo, il pontefice ha finito
comunque con il “legittimare” il suo ospite. Nulla di più vero.
Ma è anche vero che, in casi come questi, la legittimazione è sempre
reciproca.
17.12.’00