Solidarietà

La caccia | Trasmessa il: 12/17/2000




Non so voi, ma io non sono abbastanza addentro alle minutiae del sistema giuridico americano per capire cosa intendesse dire davvero la Suprema Corte degli Stati Uniti affermando, con l’ormai celebre pronuncia di mercoledì scorso, che era ormai evidente come “qualsiasi conteggio” che cercasse di “rispettare la scadenza del 15 dicembre” sarebbe stato “incostituzionale”.  Non mi risulta che nella Costituzione di quel grande paese esista una norma che vieti a un conteggio di cercare di rispettare una scadenza (e sarebbe ben strano se ci fosse), né sono riuscito a trovare in quelle parole una logica qualsiasi.  E certo nessun giornale tra i tanti che le hanno riportate tra virgolette ha sentito il bisogno di spiegarne l’occulto significato a uso dei propri lettori.  I quali, d’altronde, non si saranno sentiti più defraudati che tanto, perché era abbastanza ovvio che l’alto consesso si era limitato a decidere che, visto l’impasse in cui si era finiti, con Bush proclamato vincitore da un’autorità competente, ancorché un po’ parziale, come il governo della Florida, e Gore che guadagnava qualche centinaio di voti ogni volta che si ricontavano le schede, tanto valeva darci un taglio, smettere di contare e dare via libera al candidato repubblicano.   L’idea che gli Stati Uniti rischiassero di essere governati per quattro anni da un signore che ha certamente ottenuto meno voti popolari del suo rivale e forse non ha vinto neanche in Florida, avrà forse indotto nell’animo di quegli alti magistrati qualche guizzo di personale preoccupazione, ma non poteva essere sufficiente a farli deliberare in altro modo.  La logica che ha presieduto alla loro pronuncia è quella della solidarietà del potere, quella per cui non è mai possibile negare in nome di un principio giuridico delle decisioni assunte da un corpo politico riconosciuto, e non credo che in essa abbia pesato il fatto che cinque giudici su nove simpatizzassero ideologicamente per il neoeletto.  Se a essere stato proclamato vincitore in circostanze altrettanto dubbie fosse stato Gore, avrebbero dato ragione a lui.   Era ovvio che, di fronte a uno scarto così insignificante la soluzione più giusta sarebbe stata quella di contare e ricontare quelle maledette schede fino a raggiungere una ragionevole sicurezza, ma se si comincia a cassare la decisione di un governo in base a un criterio di giustizia, non si sa proprio più dove si va a finire.  Il primo a rendersene conto è stato proprio Gore, che, naturalmente, è un politico e, infatti, dopo qualche capriccio iniziale (poca cosa, se si pensa al giocattolo che gli hanno portato via…) si è affrettato ad allinearsi alla decisione.

       La stessa logica, in fondo, mi sembra possa servire a spiegare la decisione del papa di ricevere, ieri, il governatore della Carinzia, nonostante tutti i casini ideologici che la presenza di quell’odioso cruccaccio in Vaticano non poteva non suscitare.  Era evidente che il povero vecchio Karol a quella visita si è rassegnato con una certa ostentata riluttanza e che ha cercato di darle, com’è stato detto, il profilo più basso possibile.  Non abbastanza basso, comunque, da poter dire al suo ospite, con quella sua severità da padre affettuoso che non ha mai esitato a usare nei riguardi di teologi della liberazione, missionari preoccupati dal diffondersi dell’AIDS, fautori del sacerdozio femminile e altri reprobi, “guardi, caro presidente, che quelle sue idee a me fanno proprio schifo e comunque a noi polacchi voi austriaci siete quasi altrettanto antipatici di quanto noi lo siamo a voi.”   Macché.  Gli ha regalato un suo testo sull’amore universale, ben sapendo, naturalmente, che l’individuo si sarebbe ben guardato dal leggerlo, e ha balbettato qualcosa sul fatto che in Vaticano il dono dell’albero di Natale della Carinzia l’avevano accettato almeno quattro anni fa, quando a un Haider leader politico nazionale non pensava nessuno.  Una scena, con rispetto parlando, piuttosto penosa.

       Ma che ci poteva fare, in fondo, l’anziano pontefice?  Haider, con tutti i suoi difetti, resta comunque un potente (nel senso che è l’autorevole leader di un ricco paese cattolico), non è un qualsiasi prete ministro sandinista, che si può prendere a pesci in faccia senza problemi.   È antipatico, certo, e molto inopportuno, perché da voce a certi risvolti del pensiero cristiano che la chiesa, pur senza avere né la forza né la volontà di estirpare,  preferirebbe restassero inespressi.  Ma è un potente, un collega sul piano della potenza terrena e tra potenti ci si può combattere, se si vuole, ma non ci si ignora mai.  

       Alcuni critici hanno fatto notare come, nonostante tutti i distinguo che ha cercato di tirare in ballo, il pontefice ha finito comunque con il “legittimare” il suo ospite.  Nulla di più vero.  Ma è anche vero che, in casi come questi, la legittimazione è sempre reciproca.


17.12.’00