Slittamenti semantici

La caccia | Trasmessa il: 03/11/2001



Un tempo, tanti anni fa, “casino” era, se non proprio una parolaccia, un termine che era meglio non usare in società: una parola che a nessun patto poteva fiorire sulle labbra dei giovani beneducati o delle giovinette dabbene.  Lo si usava, quando lo si usava, per ostentare o sottolineare davanti agli altri una certa spregiudicatezza ideologica e personale, ma era un’operazione che si compiva a proprio rischio e pericolo, nel senso che gli interlocutori potevano aversene a male (o fingere di aversene a male) e tagliarti fuori dal loro universo dialogico, il che normalmente non è un grosso rischio, ma se quegli interlocutori hanno una qualche autorevolezza sul piano sociale può comportare delle conseguenze sgradevoli.  E lo si evitava con cura, naturalmente, quando si voleva esprimere rispetto o riverenza verso coloro cui ci si rivolgeva.
        Eppure, etimologicamente parlando, si trattava (e si tratta) della più innocua delle parole.  È un normalissimo diminutivo da “casa”, utilizzato, al maschile, per indicare un “piccolo edificio”, una “costruzione di modeste dimensioni”.  Ma il problema, naturalmente, è quello di cosa si va a fare in una struttura edilizia di tal fatta.  Nella letteratura del XVIII secolo, così, il casino, o il “casinetto”, era una costruzione collocata in un parco, o in un giardino, e veniva frequentato, in genere, a scopo di svago.  Niente d male, naturalmente, ma c’è svago e svago.  Ci si poteva andare ad ascoltare una serenata di Mozart, o fare come don Giovanni, che, al dire dell’abate Da Ponte, cercava di attirarvi, con le più disdicevoli delle intenzioni, Zerlina prima e la cameriera di donna Elvira poi.  E visto che di don Giovanni, notoriamente, ce n’è uno solo, ma di intenzioni disdicevoli siamo piuttosto provvisti tutti, il termine, com’è e come non è, ha finito con l’assumere, almeno nell’uso settentrionale, il senso specifico di “luogo di abiezione”.  Fino a un mezzo secolo fa, per gli italiani del nord un casino, in buona sostanza, era quello che in lingua corretta si sarebbe dovuto definire un postribolo, o un lupanare, un’istituzione, cioè, che pur essendo largamente diffusa sul territorio e regolamentata da apposite leggi non era il caso di menzionare in pubblico.
Poi, si sa, tutto cambia.  Le consuetudini sociali si evolvono, le leggi e le istituzioni si adeguano all’evoluzione e i significati delle parole anche.  Siccome in quei luoghi, a quanto si dice, era piuttosto difficile che i frequentatori tenessero un comportamento austero e contegnoso, il termine è passato, poco per volta, a indicare semplicemente uno stato di confusione o di trambusto.  E visto che nella confusione e nel trambusto non è mai facile realizzare i propri obiettivi, è invalso anche l’uso di indicare con quell’espressione qualsiasi proposito di difficile praticabilità.  Come si fa a combinare qualcosa con tutto questo casino, ci si chiede l’un l’altro, senza voler alludere affatto al mercimonio sessuale, ma per significare soltanto che tutt’attorno si fa un gran chiasso, o c’è molto disordine.  Eh sì, può capitare di sentirsi rispondere, è davvero un casino. Certo, espressioni di questo genere hanno implicita in sé una certa dose di ambivalenza, per cui si può sempre dire di qualcosa che ti piace un casino, ma questo, in ultima analisi, significa soltanto incasinare una situazione che, dal punto di vista semantico, è già abbastanza incasinata per conto suo.
È tutto un problema, appunto, di slittamenti semantici.  Ci balocchiamo da sempre con le stesse, poche parole, ma con un’inesausta attività di categorizzazione e ricategorizzazione ne modifichiamo continuamente  il significato e l’ambito d’uso, trasferendo con indifferenza lo stesso significante dalla suburra all’accademia e dall’accademia di nuovo alla suburra.   E di solito ci rendiamo conto del fenomeno solo quando, ormai, è un fatto acquisito.  Ricordo ancora lo stupore che provai, verso la metà degli anni ’70, quando un vecchio, seriosissimo preside, con il quale ero in polemica praticamente su tutto e che consideravo, culturalmente parlando, poco più che un relitto del mesozoico, mi chiese se non pensassi anch’io che gli studenti esagerassero, in quella tal circostanza, nel fare tutto quel casino.  Non ricordo cosa gli risposi, ma certamente pensai che non ci si poteva fidare più di nessuno.  Se quel venerabile fossile poteva parlare a suo bell’agio di casini con un interlocutore cui non lo legava nessuna intimità particolare, voleva dire che i tempi erano davvero cambiati e il vocabolario con loro.
Eppure, forse la situazione è un poco più complicata.  Non si spiegherebbe, se no, il disagio che impercettibilmente mi ha preso, e suppongo abbia preso anche voi, di fronte a quelle affiches pubblicitarie che annunciano, dalla fiancata di tutti i mezzi pubblici, che “la casa non è più un casino”, nel senso – suppongo – che chiunque, rivolgendosi all’indirizzo elettronico ivi reclamizzato, dovrebbe scoprire che trovar casa, ormai, è diventata la cosa più semplice del mondo.   Non solo perché non ci credo, e sono anzi convinto che, con i prezzi che ballano, trovare una casa sia più che mai un casino, ma perché mi sembra che, alla fin fine, quello slogan ci riporti indietro nel tempo.  Chi lo ha creato, evidentemente, puntava, oltre che sul falso diminutivo, che come gioco di parole non è un granché,  sul facile effetto di scandalo legato a quel tanto (o a quel poco) di sconveniente che l’espressione conserva tuttora.  Forse a scandalizzarmi sono stato soltanto io, che detesto la pubblicità allusiva, ma il problema, naturalmente, non è questo.  Il problema è che le parole, nel loro peregrinare da un significato all’altro, si portano sempre dietro, come a livello residuale, qualcosa di quello che lasciano.   Lo slittamento, insomma, non è mai radicale e come chi va al mulino, comunque, s’infarina, così chi parla di casini finisce con l’incasinarsi.   Nell’attesa di affrontare il problema a un livello teorico adeguato, mi piacerebbe ritrovare quel vecchio preside e chiedergli cosa ne pensa.

Carlo Oliva, 11.03.’01