Vedo fiorire sui muri i manifesti con
il nuovo simbolo della margherita. E rifletto che Bettino Craxi,
poveruomo, non sarà stato forse responsabile di tutte le turpitudini che
gli vengono addebitate, anche se – naturalmente – considerarlo uno statista
di specchiata onestà perché a rubare non era lui solo significa forzare
un poco il giudizio, ma di una cosa è stato senza dubbio colpevole. È
stato lui, scegliendo un fiore di garofano come emblema del suo partito,
a lanciare una moda alla quale dobbiamo questo scomposto proliferare degli
organismi vegetali nella lotta politica. Come a dire che è colpa
sua (e non è colpa da poco) se le schede elettorali e i manifesti della
sinistra tendono sempre di più a ricordare, tra querce, olivi, margherite
e girasoli, il catalogo dei Fratelli Ingegnoli.
Mi
direte che anche lui va capito, che aveva i suoi bravi problemi. Non
ne poteva proprio più della falce e del martello che campeggiavano sul
simbolo del vecchio PSI e l’amico Pannella, con la disinvoltura che già
allora lo caratterizzava, gli aveva scippato praticamente da sotto gli
occhi la rosa stretta nel pugno dai socialisti europei. E d’altronde
il garofano, il fiore del primo maggio, rappresentava da tempo, sia pure
in versione rosso fiamma, uno dei simboli del movimento operaio.
Il
problema, però, non è quello del significato dei simboli. Di qualsiasi
scelta in quel campo si può trovare, tirando un po’ da una parte un po’
dall’altra, una ragionevole spiegazione. La rosa, sul piano della
simbologia letteraria, esprime forse l’idea di una certa caducità, ma
richiama allo stesso tempo un insieme di valori che, per quanto effimeri
(o forse proprio perché sono effimeri), nessuno può permettersi di trascurare,
e in effetti il proletariato aveva capito di aver bisogno delle rose come
del pane già molto prima di Ken Loach. La quercia irradia un’immagine
di solidità e autorevolezza che ben si addice a un partito che veniva da
lontano e pensava, allora, di andare ancor più lontano. L’olivo,
oltre che essere un antico emblema di pace e di riconciliazione, è un po’
il biglietto da visita arboreo di un paese mediterraneo come il nostro,
e se nella pianura padana di olivi ne allignano pochini non è colpa di
nessuno. Meno facile, forse, sarebbe motivare la promozione a emblema
politico della margherita e del girasole (a meno che si sia voluto giocare
sul fatto che ambedue queste specie vegetali appartengono all’ordine delle
composite) ma con un poco di buona volontà suppongo che ci si potrebbe
arrivare benissimo.
No,
il problema, sostanzialmente, è un altro. È quello di cosa quei simboli
non vogliono essere. Craxi, appunto, aveva scelto il garofano per
fare capire a tutti che il suo partito non era più quello dell’unità a
sinistra e che di anticaglie del tipo dell’unità fra i lavoratori dell’industria
e quelli dell’agricoltura (qual era espressa dal vecchio emblema bolscevico
della falce e martello) non ne voleva nemmeno sentire parlare, perché a
lui bastava e avanzava l’unità dei nani e delle ballerine, delle modelle
e degli assessori. Con analoga mossa il PDS si era rifugiato tra
i rami fruscianti dell’albero sacro a Zeus per recidere ostensibilmente
il legame con tutta una tradizione con la quale aveva deciso, a torto o
a ragione, di non volere avere a che fare. E la frasca di ulivo serviva,
nella sua novità indifferenziata, a sfumare un certo numero di diversità
che allora pesavano (e ancor oggi pesano) nei rapporti interni alla coalizione.
Non
saprei dirvi, oggi, che cosa precisamente si nasconda dietro i petali candidi
della margherita: forse l’ecletticità e la spregiudicatezza con cui i
leader delle sue componenti si sono mossi in questi anni. Ma in
attesa di sapere se davvero ci sarà un girasole e da chi sarà costituito,
posso azzardarmi a scommettere fin d’ora che dietro l’ansietà di quel
volto giallino (per citare il poeta) troveremo più un rifiuto che un affermazione.
A sinistra, oggi, non piacciono le identità troppo definite e le
eredità ideologiche troppo precise. Meglio sfumare, meglio presentarsi
con la serena innocenza degli alberi, dei fiori e delle frasche.
Quanto tutto questo possa giovare nello scontro con un avversario che della
propria identità è ben sicuro, che ne è, anzi, sfrontatamente orgoglioso,
non è mio compito stabilire in questa sede. A occhio e croce direi
che non s’intravede nulla di buono, ma forse mi sbaglio.
In
ogni caso, se il problema è quello di nascondere dietro un simbolo vegetale
quella parte di sé che si rifiuta e che si preferirebbe dimenticare, perché
in fondo ci se ne vergogna, la soluzione è obbligata. La prossima
volta, se ci sarà – naturalmente – una prossima volta, la sinistra finalmente
unita potrà presentarsi all’elettorato sotto l’emblema comune della foglia
di fico.
Carlo Oliva, 18.03.’01