Sigle di fortuna

La caccia | Trasmessa il: 11/11/2007


    Il senatore Dini, ne converrete anche voi, è uomo molto fortunato. E non lo dico, si intende, in riferimento alla sua brillante carriera di banchiere, parlamentare e ministro, che, per quanto ne so, potrebbe dipendere da ben altre doti che non la fortuna. Solo la dea bendata, invece, poteva concedergli il dono di far coincidere senza troppe forzature la sigla del suo nuovo partito (se, come credo, di un partito si tratta) con le iniziali del proprio nome. È grazie ai suoi favori se nel simbolo, nelle schede elettorali, sui manifesti e nelle note politiche i Liberal Democratici potranno d’ora in poi essere percepiti e identificati come una proprietà assoluta e indiscussa di Lamberto Dini.
    Vi sembrerà una cosa da nulla, ma in Italia tutto ha la sua importanza, anche le sigle. In fondo, da quel punto di vista, Silvio Berlusconi non può ambire a essere altro che il Solito Bauscia e Romano Prodi è costretto a vedere sottolineato il proprio stato di leader a Rischio Perenne. Io, se volessi – come si dice – scendere in campo, sarei costretto a scegliere tra i Comunisti Ostinati e i Conservatori Ottimisti e nessuna di quelle caratterizzazioni, salvo forse l’aggettivo “ostinato”, mi si addice in modo particolare. L’amico Accame qui presente se la caverebbe forse un po’ meglio, visto che nessuno può dubitare che la sua voce non sia quella di un Flebile Anarchico, ma gli anarchici, flebili o roboanti che siano, non fondano movimenti politici e non assurgono a importanti posizioni di potere parlamentare. L’ottimo Lamberto, invece, può sostenere a buon diritto di essere liberaldemocratico (anche se di solito il termine si scrive in una parola sola), può convalidare l’istanza con le proprie iniziali e può pretendere persino di venire preso sul serio.
    Sto scherzando, naturalmente. Altre obiezioni assai più severe si potrebbero muovere a Dini e ai non pochi che, come lui, si sono via via staccati dalla coalizione che li aveva portati in Parlamento, e oggi contrattano il proprio appoggio al governo con una tecnica che un po’ fa pensare ai suq del Levante. Tutti, si orientino al centro o si collochino sulla sinistra, possono dichiarare, a sostegno delle loro scelte, ottime ragioni personali e di gruppo, ma il semplice fatto di aver spezzato il legame di fiducia con l’elettorato li relega inesorabilmente al di fuori della dialettica politica rettamente intesa. Il diritto a cambiare opinione è sacro, ma non comporta l’obbligo di continuare a sedere in Parlamento. Ed è vero che la nostra Costituzione non impone agli eletti un preciso vincolo di mandato, anzi, esplicitamente lo esclude, ma a me sembra irrefutabile che, almeno dal punto di vista della dignità politica, il loro voto si collochi parecchie spanne al di sotto di quello, tanto contestato, dei senatori a vita.
    Tuttavia, non c’è, nel loro comportamento, o in quello del povero Prodi, che a una quantità di umilianti do ut des con costoro deve fingere di fare buon viso, nulla di veramente nuovo. È il vecchio trasformismo italiano che, inaugurato, se non erro, nel 1876 dal primo gabinetto Depretis, aduggia da allora la nostra vita parlamentare. Che i governi si debbano reggere su una serie continua di trattative, di scambi e di aggiustamenti volti a legare agli interessi della maggioranza quella di gruppi disparati in vario modo concorrenti è un destino che molti hanno denunciato (tra i primi vi fu, negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, Piero Gobetti, che come liberaldemocratico poteva vantare delle credenziali un filino più convincenti di quelle di Dini) ma che nessuno ha saputo esorcizzare una volta per tutte. La pratica è nata a sinistra, ma è stata entusiasticamente adottata dalla destra, è sopravvissuta agli anni del fascismo e della Democrazia Cristiana (in cui l’articolazione per correnti e non per partiti la rendeva meno visibile, ma la sostanza era quella) e si ripropone, oggi, a entrambi gli schieramenti. Anche Berlusconi sta trattando con le varie schegge impazzite e non è detto che la cosa gli debba piacere più che al suo rivale. Ma così va il mondo.
    Che questo sia il problema lo dimostra anche, con rispetto parlando, la denominazione del movimento di Dini. Oggi, francamente, definirsi liberaldemocratici (scritto in una parola o in due) non vuole dire molto. Siamo tutti liberali, da un po’, e tutti democratici, certo, a onta del fatto che la nostra società sia assai poco liberale e che sulla democraticità del vigente sistema rappresentativo si possano nutrire parecchi dubbi. Anche i termini politici subiscono una loro deriva, che ne allarga le possibilità di impiego, ma ne riduce fatalmente la pregnanza. Nel XIX secolo su quelle parole ci si poteva accapigliare – un papa si prese persino il disturbo di condannarle con una enciclica – e ancora ai tempi di Gobetti l’accostarle faceva un po’ scandalo. Ma oggi… oggi sono termini talmente logorati dall’uso che chiunque, ma proprio chiunque, può farli propri, anche al solo fine di mettere in rilievo le iniziali del proprio nome. Una circostanza fortunata, certo, ma una sigla, tutto sommato, di fortuna.


    Un’ultima chiosa. Mi ha sgradevolmente colpito, l’altro giorno, una osservazione del ministro Amato, un tipico uomo per tutte le stagioni, che a ogni tentativo di definizione si è sempre tenacemente sottratto, forse perché a tutti si considera superiore, o perché non si vuole precludere la possibilità di collaborare con nessuno. Secondo costui, le modifiche attualmente in discussione al decreto anti Rom, quelle che a detta di molti rischiano di snaturare l’efficacia sanzionatoria del provvedimento, “non sono la risposta a un’istanza comunista, ma la concessione a una richiesta liberale”. Parole ineccepibili, a prima vista, ma in realtà poco più di una battuta, che cerca di confondere furbescamente un dato che tutti possono capire senza difficoltà, ovvero che quel provvedimento vergognoso, voluto, in spregio di ogni principio di democrazia, da chi pretende di sequestrare l’aggettivo democratico a proprio uso e consumo, è stato, sia pure in parte, attenuato su iniziativa dell’ala sinistra della coalizione di governo, che ha fatto, per una volta, il suo mestiere. Ma parole che rivelano al tempo stesso il convincimento, affatto illiberale, che alle richieste di quel genere qualcosa si possa o si debba, se necessario, concedere. Naturalmente, i diritti, anche quelli degli immigrati, non sono oggetto di concessione, ma forse per questi nostri politici la distinzione è troppo sottile.