Sforbiciate, menzogne e guerra civile

La caccia | Trasmessa il: 05/30/2010


    Strane cose succedono negli uffici ministeriali, quando si tratta di preparare e far digerire una manovra come quella che ci è capitata tra capo e collo. Qualcuno propone di abolire le provincie, che è una vecchissima, ragionevole proposta di semplificazione amministrativa e qualcun altro risponde che se gli toccano questa o quell'altra provincia si è a rischio di guerra civile. Allora dicono ma no, cosa avete capito, scherzavamo, vogliamo solo accorpare le provincie più piccole con le adiacenti e non quelle delle regioni autonome, figuriamoci, e neanche quelle di confine, ci mancherebbe, che è una criteriologia affatto a capocchia, perché le provincie come enti non hanno niente a che vedere con le regioni, autonome o meno, e, non avendo esse funzioni militari né diplomatiche, non si capisce cosa c'entri il confine, ma ha il vantaggio di escludere dal taglio tutte quelle care a chi è in grado di minacciare, appunto, la guerra civile e se, a questo punto, se ne possono eliminare soltanto nove su cento, peccato, ma è il principio che conta, no? Certo, qualcuno potrebbe obiettare che il modo migliore di trattare uno che fa minacce del genere non è esattamente quello di dargli ragione, anche se è Bossi, e che sarebbe più opportuno, piuttosto, far intervenire la forza pubblica, ma alle sparate di Bossi sono abituati tutti e poi il problema si sgonfia perché qualcun altro deve aver dato un'occhiata alla Costituzione e ha scoperto che, to', non rientra nelle disponibilità del governo l'abolire o accorpare checchessia per decreto, per cui se ne riparlerà un'altra volta. Un bell'esempio, nel complesso, di come confondere l'opinione pubblica, facendo passare il concetto che la manovra non consisterà soltanto di tagli destinati a ripercuotersi sul bilancio dei cittadini, ma avrà una sua dimensione riformatrice e creativa, senza poi farne nulla perché questa classe dirigente non fa che parlare di riforme, ma quando si arriva al dunque vi si rivela tenacemente tetragona, specie quando, come nel caso, la riforma in questione comporta un minimo di cura dimagrante a suo carico.
    Un altro capitolo interessante, da questo punto di vista, è quello del taglio ai rimborsi delle spese elettorali ai partiti. Viene annunciato, appena si comincia a parlare di manovra, nella misura del cinquanta per cento. L'opinione pubblica approva con entusiasmo, da un lato perché è convinzione diffusa che sia giusto che i politici si accollino la loro parte di sacrifici, oltre a chiederli agli altri, dall'altro perché questi pretesi “rimborsi” sono una forma mascherata di finanziamento, visto che non hanno alcun rapporto diretto o indiretto con quanto i beneficiari effettivamente spendono e non richiedono, infatti, alcuna documentazione in proposito, e il finanziamento ai partiti, naturalmente, è stato a suo tempo abolito per referendum e il fatto che l'abbiano reintrodotto di soppiatto resta uno degli scandali di regime più vergognosi, nonché uno schiaffo diretto alla sovranità popolare. Di fatto, il “Corriere della sera” di martedì 25 annuncia con rilievo che i contributi saranno dimezzati e commenta il fatto con un articolo in prima pagina, da cui si apprendono molte cose interessanti su come funziona quel meccanismo, i cui introiti sono saliti, in dieci anni, del settecentosettanta per cento e ammontano, allo stato, a poco più di un miliardo di euro per legislatura. Mezzo miliardo di tagli, su ventiquattro di manovra, non è un granché, ma non è neanche pochissimo.
    Tutti contenti, dunque, tranne quelli cui non è sfuggito un trafiletto dell'articolo a pagina 3 di “Repubblica” dello stesso giorno, da cui risulta che, nella riunione del Consiglio, “qualche piccola concessione alla fine il ministro dell'Economia l'ha fatta”. Per esempio, si spiega, la “sforbiciata” al finanziamento pubblico dei partiti sarà “più leggera”, ma non si dice di quanto. Per avere qualche lume in merito bisogna aspettare fino a sera, quando, durante una trasmissione televisiva, il conduttore legge una notizia di agenzia appena pervenuta da cui risulta che il taglio, sarà, a quanto pare, del venti per cento, senza che nessuno dei presenti, tra i quali il terribile vicepresidente della Camera Lupi, senta il bisogno di fare commenti. Di commenti non se ne trovano neanche nei giornali del giorno dopo, mercoledì 26, in cui della nuova percentuale si riferisce con molta, moltissima discrezione: in effetti la notizia relativa la si trova, ma non ovunque e solo a saperla cercare. Giovedì 27, infine, il “Corriere” ci informa di passaggio, nel testo di un fondo di Gian Antonio Stella (specialista in denunce delle malefatte della “casta”), che il dimezzamento è stato ridimensionato e “forse si sforbicerà il 20%, forse il 10”. Ah. Il resto, come diceva quel tale, è silenzio.
    Anche in questo caso, comunque, l'opinione pubblica è stata elegantemente presa per i fondelli. Annunciando dei provvedimenti che non aveva, in realtà, la minima intenzione da prendere, il governo ha creato non tanto un'aspettativa quanto una convinzione. Ha potuto spendere sul mercato del consenso, come fa spesso, dei dividendi che non aveva ancora incassato, definendo la sua manovra come quella che prevede comunque, tra l'altro, il taglio delle province e quello dei fondi ai partiti. Una specie di vendita allo scoperto, se vogliamo, con la differenza che, per quelle operazioni, il mercato finanziario prevede delle verifiche a data fissa, in cui è imperativo saldare i conti. Nel nostro caso, invece, è piuttosto probabile che i conti non li salderà nessuno, nel senso che ai sacrifici richiesti ai cittadini, che andranno – quelli sì – subito in pagamento, non corrisponderà alcun autosacrificio della classe politica. A questo modo di fare meglio si addice il termine “truffa”, ma tanto che questa sia la pratica preferita del centrodestra lo sappiamo tutti e ormai non ci fa più neanche impressione.
30.05.'10