Sfasciumi

La caccia | Trasmessa il: 04/19/2009


    Sono un po' stanco di discorsi sul terremoto, ma temo proprio, se me ne darete la facoltà, di dovervene infliggere un altro. L'argomento, ne converrete, non è di quelli che si possano lasciar perdere per correre dietro all'attualità stretta. D'altro canto, sono tanti (troppi) anni che vivo in questa penisola, così ricca di faglie e di punti di frattura, di terremoti ne ho visto parecchi – il Belice, il Friuli, l'Irpinia, l'Umbria, il Molise... – di discorsi ne ho sentiti e ne ho fatti tanti e l'impressione che me ne è rimasta è che siano serviti tutti a ben poco. Di fatto, argomentazioni e tematiche si ripetono inalterate da decenni e dall'emozione, dallo sgomento collettivo, dall'impeto di solidarietà che nasce spontaneo dalla catastrofe si ricade inevitabilmente in una sorta di deja vu ideologico dal quale non è facile districarsi. Così, ecco le polemiche sulla prevedibilità del fenomeno, perché c'è sempre qualcuno che l'aveva previsto senza che nessuno gli desse retta e qualcuno che si aggrappa come un ostrica al concetto per cui eventi del genere non si possono affatto prevedere. Ecco la retorica della dignità delle vittime, cui è più facile conferire una superiore dimensione morale che far avere stufe e coperte nella quantità necessaria. Ecco l'autoelogio di noi italiani (o di loro umbri, loro abruzzesi, loro friulani, loro irpini...), che diamo e danno il meglio di sé nei momenti difficili, che sarà vero, figuriamoci, ma a me sembra piuttosto una caratteristica della specie umana in generale che qualcosa di tipico della nostra nazione o di una sua parte e che rischia di avere, se sviluppato con troppo entusiasmo, delle sgradevoli implicazioni razziste. Ed ecco, naturalmente, le contrapposizioni in tema di ricostruzione, tra gli abitanti che chiedono che ogni centro colpito risorga dov'era e com'era e quanti, per convinzione o megalomania, propongono di far sorgere altrove dei centri che, oltre che a tramandare ai posteri il loro nome, mettano al sicuro per sempre da qualsivoglia rischio di questo genere chi dovrà viverci. Andate a rileggere le cronache degli eventi passati e ritroverete pari pari lo stesso bagaglio polemico, il medesim armamentario argomentativo, anche se allora non c'erano, per amplificarli e drammatizzarli, i salotti televisivi.
    Una differenza sensibile tra i commenti di ieri e quelli di oggi tuttavia forse c'è, e consiste nel fatto che allora si dava più spazio alle proteste sulla disorganizzazione, sul ritardo e l'insufficienza degli aiuti, dando voce a una vecchia (e giustificatissima) diffidenza nazionale in tema di efficienza dei poteri pubblici. Questo genere di discorso oggi è un po' come annegato nella bramosia di consenso che ha travolto il paese e ha trovato una consacrazione mediatica nella scoperta del Berlusconi buono, quello che si commuove, piange in pubblico, segue la messa in piedi tra la gente e offre, con ostentata sincerità, le proprie case (forse non tutte) ai senzatetto. Chi ha sollevato il tema – forse giocando un poco di anticipo, ma non senza buone ragioni – è stato oggetto di un fuoco di sbarramento preventivo di quelli che la grande stampa italiana ormai è diventata bravissima a organizzare ed equiparato sul campo a quegli “sciacalli” che nelle cronache post terremoto, veri o immaginari, non mancano mai, ma che tutto sul fronte dell'emergenza stia andando alla grande, naturalmente, non è vero e presto o tardi dovremo deciderci ad ammetterlo. La dedizione e l'impegno dei volontari e dei professionisti impegnati nei soccorsi sarà fuori discussione, nessuno ne dubita, ma in un'area in cui è venuta giù la prefettura è difficile che la Protezione Civile, che ivi normalmente ha la sede, possa dare il meglio di sé.
    L'esperienza, d'altronde, ci ha spiegato che gran parte di queste polemiche sono disperatamente futili. È evidente, per esempio, che la prevedibilità di quel tipo di eventi ha senso soltanto su un piano probabilistico, e che le previsioni sono tanto più attendibili quanto più tempo gli si lascia per realizzarsi, il che significa che la solerzia con cui sono o non sono state predisposte le contromisure ha a che fare più con la previdenza dei responsabili che con la loro preveggenza. Ma che in una zona riconosciuta per sismica presto o tardi ci sarà un terremoto è, ahimè, sicuro al cento per cento ed è improbabile che chi insiste sull'impossibilità di una previsione qualsiasi lo faccia per altre ragioni che non per giustificare la propria negligenza. Anche la contrapposizione tra i fautori del dov'era e com'era e quelli del meglio altrove e diverso non ha, a pensarci bene, un grandissimo respiro. A parte i casi limite come quello di Gibellina (che vanno, comunque, sempre tenuti nella debita considerazione), l'esperienza insegna che città e paesi saranno ricostruiti, più o meno, dove sono adesso, per il semplice motivo che i centri abitati non sono mai delle entità isolate, ma si collocano ciascuno in un sistema di relazioni piuttosto rigido, e poi non sono sorti a caso sulla superficie terrestre, ma sono nati e cresciuti dove avevano un motivo per nascere e crescere e non possono venire spostati dove di motivi del genere non ce ne sono o ne vigono di altri. Certo, una città ricostruita sarà (dovrà essere) in un centro senso “nuova”, ma il rischio di parlare in inglese di cose nostrane, come ha fatto per l'occasione il capo del governo, è appunto quello di non capire (o non far capire) che una città nuova non dev'essere necessariamente una nuova città, e le new towns, intese come esperienza urbanistica, sono cosa che con i terremoti e la sismicità del territorio non ha proprio niente a che fare. Non è una new town, d'altronde, neanche quella Milano 2 che il tipo ha citato come esempio della propria competenza in tema di costruzioni e ricostruzioni, ma lasciamo pure perdere.
    Un tempo, nei primi anni '70, negli ambienti che frequentavo si diceva che con i terremoti bisognava soprattutto imparare a convivere, nel senso non soltanto dell'essere sempre e comunque consapevoli della loro immanenza, ma in quello dell'organizzare la vita propria e della comunità nella previsione del loro improvviso manifestarsi. Non era una gran scoperta, trattandosi di un concetto espresso più volte da pensatori insigni, da Lucrezio al Leopardi, che con La ginestra (che più che di terremoti parla di eruzioni vulcaniche, ma fa lo stesso) ne ha dato un'alta espressione poetica. Ma è appunto quello che non si fa mai, perché gli uomini, come fa notare, citando il Vangelo di Giovanni, appunto l'autore dei Canti, hanno una certa maledetta tendenza ad anteporre le tenebre alla luce, non amano rendersi conto della propria debolezza e della propria precarietà e preferiscono illudersi di avere una posizione privilegiata in quella Natura di cui sono, in ultima analisi, solo uno degli infiniti ingranaggi.
    Questo vale, si capisce, per le persone normali, come me e come voi: figuratevi per chi della altrui (e propria) ignoranza può approfittare per risparmiare sui costi e fare quegli ingenti guadagni che gli permetteranno – oltretutto – di sottrarsi alla sua parte di pericolo e di domiciliarsi più spesso in una villa in Brianza che in un condominio alle falde del Vesuvio o un casolare sull'Appennino aquilano. La tentazione di far finta di niente diventa irresistibile. È sempre stato questo il problema della nostra classe dirigente, con particolare riguardo a quella attuale, il cui leader, pochi giorni appunto prima dello scossone, proponeva di rilanciare l'attività edilizia riducendo i controlli e il cui governo ha fatto approvare qualche settimana fa un emendamento a non so quale decreto, per cui l'applicazione di tutte le nuove norme in materia di costruzione, comprese quelle antisismiche, è slittata di almeno un anno. Il parlamentare che ha proposto l'illuminata misura, tal senatore Gabriele Boscetto, a un intervistatrice che gli chiedeva se almeno a quelle prescrizioni lì non si sarebbe potuto dare la precedenza, ha risposto con un sobrio “Nessuno me lo ha chiesto”. Nessuno che io sappia, gli ha risposto come si meritava, visto che della mancata applicazione di quelle regole il governo precedente non è meno responsabile di quello attuale e, più in generale, che nessuno, in Italia, si è mai occupato di questioni del genere da quando si è scoperto che i terremoti non sono provocati dai colpi di tridente del dio Posidone. A dimostrare che allo sfasciume geologico del nostro paese, che non è colpa di nessuno, corrisponde uno sfasciume civile e culturale di cui molto meglio faremmo a preoccuparci.

    19.04.'09


    Nota

    L'intervista al senatore Boscetto, la cui lettura caldamente si raccomanda, è stata pubblicata sul “Corriere della Sera” in data 11 aprile u.s. Non ha un grande rilievo, ma con un po' di pazienza la si trova.