Semantica alimentare

La caccia | Trasmessa il: 04/27/2003



Avrete probabilmente dimenticato, con tutto quello che è successo, che uno dei primi segnali che hanno fatto capire agli analisti internazionali che gli Stati Uniti avevano preso l’irrevocabile decisione di scatenare la guerra, checché ne dicessero i vari Chirac e Schröder, è stata la decisione di cambiare il nome delle patatine comunemente servite come contorno alla cafeteria del Congresso di Washington.  Invece di un piatto o un cartoccio di french fries (“fritte francesi”, come venivano chiamate fino ad allora) senatori e deputati hanno dovuto adattarsi a chiederne uno di freedom fries, che vuol dire “fritte della libertà”, un termine che in sé poteva suonare vagamente ridicolo, ma aveva il duplice vantaggio di conservare l’originaria allitterazione e di richiamare alla memoria l’operazione Enduring Freedom,  in cui il paese si sentiva impegnato, dando modo ai legislatori a stelle e strisce di dimostrare il proprio spirito patriottico al solo prezzo del fiato necessario per una sillaba in più.
        La notizia, in sé, poteva sembrare abbastanza cretina, nel contesto tragico di una guerra (allora) imminente, e in effetti sono stati parecchi i commentatori che, quando ancora ce lo si poteva permettere, non hanno resistito alla tentazione di riferirne con un minimo di ironia.   Ma il nazionalismo linguistico, per quanti aspetti ridicoli abbia, è cosa più seria di quanto non paia e, soprattutto, non risparmia nessuno.  Chiunque abbia commesso l’errore di ordinare in un bar greco un caffè “turco” (o, suppongo, viceversa) può testimoniare di come, in certi contesti, l’identità del significato non escluda la contraddittorietà ideologica dei significanti.  E in questi giorni di solidarietà franco tedesca pochi possono immaginare la virulenza con cui, negli anni ’30 del secolo scorso, in Francia si dibatté il problema dell’acqua di Colonia, un vanto dell’industria nazionale che i veri patrioti volevano a ogni costo ribattezzare “acqua di Parigi”, per epurarne l’immagine da ogni allusione ai nemici d’oltre Reno (essendo Colonia, notoriamente, una città tedesca).  All’epoca il caso fu risolto osservando come in tutto il mondo, Germania compresa, quel profumo si definisse comunemente eau de Cologne, una vittoria linguistica che faceva aggio, evidentemente, sulla subordinazione toponomastica e che si poteva, nel caso, accentuare, scrivendo, come da allora si scrive, cologne con la minuscola e la decisione fu premiata dal successivo fallimento dei tentativi tedeschi di ribattezzare il prodotto Kölnischwasser.  Ma di episodi del genere sono piene le cronache, a dimostrazione di come, quando si tratta di contrapporre un uso linguistico a un altro nessuno sia mai arretrato di fronte al senso del ridicolo.
        I nomi, si sa, non sono neutrali e meno che mai lo sono quelli dei cibi di cui ci nutriamo.  Figuriamoci nel caso delle patate fritte, che, nella versione comunemente servita in America, di francese non hanno praticamente nulla, ma che in Francia, preparate in ben altro modo, sono considerate un vanto della cucina nazionale: lo ricordava, già nel 1957, Roland Barthes in Mythologies (Miti d’oggi, per il lettore italiano), che in quell’alimento non esitava a vedere “il segno alimentare della ‘francità’”.
        La patata, peraltro, è un prodotto tipicamente americano: è anzi uno dei doni più importanti, sul piano alimentare, che dal nuovo  continente siano giunti nel resto del mondo, il vegetale la cui introduzione ha salvato interi paesi da una storia di secolare miseria e carestie ripetute.   Ma è in Europa (anzi, proprio in Francia) che si è imparato a mangiarne ed è da lì che il suo consumo è rimbalzato nella terra d’origine, portando con sé una serie di consuetudini alimentari cui si sono fatalmente aggregati dei tipici giudizi di valore.  Non sarà un caso, così, se negli Stati Uniti la preparazione “alla francese” – le french fries, appunto – è considerata più pregiata di quella “casalinga”, le home fried potatoes, che riflettono, alla lontana, una tradizione mitteleuropea che sul piano gastronomico è meno rinomata.  In quel contesto, come in altri, l’aggettivo non ha tanto una connotazione nazionale, quanto una di eccellenza.  Le patatine si dicono “francesi” per lo stesso motivo per cui i vignaioli californiani cercano di nobilitare i loro vini più correnti con nomi quali burgundy e chablis, anche se con quei nobili vitigni il prodotto, in sé, ha poco a che fare.  Il meccanismo si ripete anche fuori dall’ambito alimentare: basterà ricordare, senza perdersi nelle problematiche del french kiss, le porte finestra che danno in giardino, che negli U.S.A. non si chiamano french doors perché vengano dalla Francia, ma perché chi vive in una villa circondata dal verde si considera portatore di una civiltà superiore a quella di chi abita in un volgare appartamento.  Sono, forse, lontani ricordi del tempo in cui, nel quadro valori dei coloni ribelli alla madre patria inglese, tutto ciò che ricordava il potente alleato francese godeva di un ovvio prestigio.  In fondo gli Stati Uniti, nella loro breve storia, hanno combattuto due guerre contro la Gran Bretagna e una contro la Spagna, ma nessuna contro la Francia.  È ovvio che la rottura (se rottura c’è stata) oggi sia sentita come particolarmente grave e si senta il bisogno di sanzionarla.  E visto che non è possibile rimandare a Parigi la Statua della Libertà, che è il simbolo storico di quella amicizia (ma qualcuno, a New York, lo ha seriamente proposto…), si può sempre provare a epurare i menù dei ristoranti, anche se pare che ci siano delle difficoltà per il filet mignon, e cambiare, quanto meno, il nome alle patatine.
È chiaro, comunque, che nell’operazione sono in gioco ritualità e motivazioni più complicate di quanto si possa supporre.  Oltre al piacere, indiscutibile, di fare un dispetto a qualcuno con cui si ha avuto a che dire, vi ci si esprime un’esplicita volontà di ridefinire il proprio sistema di riferimenti culturali.  L’America, in questi giorni, ha compiuto davvero un salto di qualità, non tanto sul piano della sua politica estera, che resta ancorata, ormai da oltre un secolo, al principio roosveltiano del “grosso bastone”, quanto su quello della consapevolezza relativa.  In pratica, ha allargato al mondo intero la dottrina di Monroe e un evento di questo genere, in un modo o nell’altro, andava segnalato in qualche modo.
Naturalmente la vecchia, nobile (e inettissima) Europa potrebbe provarsi a reagire dando il bando agli american bar, rinunciando una volta per tutte all’homard à l’américaine, restituendo alle noccioline salate il loro corretto locativo africano, cambiando aggettivo alla gomma da masticare e decidendo solennemente, a ulteriore affermazione della propria identità, che un aperitivo composto in parti uguali da bitter e vermut, con una fetta di arancio e uno schizzo di acqua di soda, non si può chiamare più “americano”.  Materiale per la contesa, a cercarlo, ce ne sarebbe parecchio e chiunque se la senta può fare le sue proposte in merito.  E sì, sarebbe una guerra cretina, ma non mai tanto cretina quanto l’inutile strage che hanno scatenato l’americano Bush, l’europeo Blair e i loro amici e sottoposti nei vari continenti.

27 aprile 2003