Avrete probabilmente dimenticato, con
tutto quello che è successo, che uno dei primi segnali che hanno fatto
capire agli analisti internazionali che gli Stati Uniti avevano preso l’irrevocabile
decisione di scatenare la guerra, checché ne dicessero i vari Chirac e
Schröder, è stata la decisione di cambiare il nome delle patatine comunemente
servite come contorno alla cafeteria del Congresso di Washington. Invece
di un piatto o un cartoccio di french fries (“fritte francesi”, come
venivano chiamate fino ad allora) senatori e deputati hanno dovuto adattarsi
a chiederne uno di freedom fries, che vuol dire “fritte della libertà”,
un termine che in sé poteva suonare vagamente ridicolo, ma aveva il duplice
vantaggio di conservare l’originaria allitterazione e di richiamare alla
memoria l’operazione Enduring Freedom, in cui il paese si sentiva
impegnato, dando modo ai legislatori a stelle e strisce di dimostrare il
proprio spirito patriottico al solo prezzo del fiato necessario per una
sillaba in più.
La
notizia, in sé, poteva sembrare abbastanza cretina, nel contesto tragico
di una guerra (allora) imminente, e in effetti sono stati parecchi i commentatori
che, quando ancora ce lo si poteva permettere, non hanno resistito alla
tentazione di riferirne con un minimo di ironia. Ma il nazionalismo
linguistico, per quanti aspetti ridicoli abbia, è cosa più seria di quanto
non paia e, soprattutto, non risparmia nessuno. Chiunque abbia commesso
l’errore di ordinare in un bar greco un caffè “turco” (o, suppongo,
viceversa) può testimoniare di come, in certi contesti, l’identità del
significato non escluda la contraddittorietà ideologica dei significanti.
E in questi giorni di solidarietà franco tedesca pochi possono immaginare
la virulenza con cui, negli anni ’30 del secolo scorso, in Francia si
dibatté il problema dell’acqua di Colonia, un vanto dell’industria nazionale
che i veri patrioti volevano a ogni costo ribattezzare “acqua di Parigi”,
per epurarne l’immagine da ogni allusione ai nemici d’oltre Reno (essendo
Colonia, notoriamente, una città tedesca). All’epoca il caso fu
risolto osservando come in tutto il mondo, Germania compresa, quel profumo
si definisse comunemente eau de Cologne, una vittoria linguistica che faceva
aggio, evidentemente, sulla subordinazione toponomastica e che si poteva,
nel caso, accentuare, scrivendo, come da allora si scrive, cologne con
la minuscola e la decisione fu premiata dal successivo fallimento dei tentativi
tedeschi di ribattezzare il prodotto Kölnischwasser. Ma di episodi
del genere sono piene le cronache, a dimostrazione di come, quando si tratta
di contrapporre un uso linguistico a un altro nessuno sia mai arretrato
di fronte al senso del ridicolo.
I
nomi, si sa, non sono neutrali e meno che mai lo sono quelli dei cibi di
cui ci nutriamo. Figuriamoci nel caso delle patate fritte, che, nella
versione comunemente servita in America, di francese non hanno praticamente
nulla, ma che in Francia, preparate in ben altro modo, sono considerate
un vanto della cucina nazionale: lo ricordava, già nel 1957, Roland Barthes
in Mythologies (Miti d’oggi, per il lettore italiano), che in quell’alimento
non esitava a vedere “il segno alimentare della ‘francità’”.
La
patata, peraltro, è un prodotto tipicamente americano: è anzi uno dei doni
più importanti, sul piano alimentare, che dal nuovo continente siano
giunti nel resto del mondo, il vegetale la cui introduzione ha salvato
interi paesi da una storia di secolare miseria e carestie ripetute.
Ma è in Europa (anzi, proprio in Francia) che si è imparato a mangiarne
ed è da lì che il suo consumo è rimbalzato nella terra d’origine, portando
con sé una serie di consuetudini alimentari cui si sono fatalmente aggregati
dei tipici giudizi di valore. Non sarà un caso, così, se negli Stati
Uniti la preparazione “alla francese” – le french fries, appunto –
è considerata più pregiata di quella “casalinga”, le home fried potatoes,
che riflettono, alla lontana, una tradizione mitteleuropea che sul piano
gastronomico è meno rinomata. In quel contesto, come in altri, l’aggettivo
non ha tanto una connotazione nazionale, quanto una di eccellenza. Le
patatine si dicono “francesi” per lo stesso motivo per cui i vignaioli
californiani cercano di nobilitare i loro vini più correnti con nomi quali
burgundy e chablis, anche se con quei nobili vitigni il prodotto, in sé,
ha poco a che fare. Il meccanismo si ripete anche fuori dall’ambito
alimentare: basterà ricordare, senza perdersi nelle problematiche del french
kiss, le porte finestra che danno in giardino, che negli U.S.A. non si
chiamano french doors perché vengano dalla Francia, ma perché chi vive
in una villa circondata dal verde si considera portatore di una civiltà
superiore a quella di chi abita in un volgare appartamento. Sono,
forse, lontani ricordi del tempo in cui, nel quadro valori dei coloni ribelli
alla madre patria inglese, tutto ciò che ricordava il potente alleato francese
godeva di un ovvio prestigio. In fondo gli Stati Uniti, nella loro
breve storia, hanno combattuto due guerre contro la Gran Bretagna e una
contro la Spagna, ma nessuna contro la Francia. È ovvio che la rottura
(se rottura c’è stata) oggi sia sentita come particolarmente grave e si
senta il bisogno di sanzionarla. E visto che non è possibile rimandare
a Parigi la Statua della Libertà, che è il simbolo storico di quella amicizia
(ma qualcuno, a New York, lo ha seriamente proposto…), si può sempre provare
a epurare i menù dei ristoranti, anche se pare che ci siano delle difficoltà
per il filet mignon, e cambiare, quanto meno, il nome alle patatine.
È chiaro, comunque, che nell’operazione
sono in gioco ritualità e motivazioni più complicate di quanto si possa
supporre. Oltre al piacere, indiscutibile, di fare un dispetto a
qualcuno con cui si ha avuto a che dire, vi ci si esprime un’esplicita
volontà di ridefinire il proprio sistema di riferimenti culturali. L’America,
in questi giorni, ha compiuto davvero un salto di qualità, non tanto sul
piano della sua politica estera, che resta ancorata, ormai da oltre un
secolo, al principio roosveltiano del “grosso bastone”, quanto su quello
della consapevolezza relativa. In pratica, ha allargato al mondo
intero la dottrina di Monroe e un evento di questo genere, in un modo o
nell’altro, andava segnalato in qualche modo.
Naturalmente la vecchia, nobile (e inettissima)
Europa potrebbe provarsi a reagire dando il bando agli american bar, rinunciando
una volta per tutte all’homard à l’américaine, restituendo alle noccioline
salate il loro corretto locativo africano, cambiando aggettivo alla gomma
da masticare e decidendo solennemente, a ulteriore affermazione della propria
identità, che un aperitivo composto in parti uguali da bitter e vermut,
con una fetta di arancio e uno schizzo di acqua di soda, non si può chiamare
più “americano”. Materiale per la contesa, a cercarlo, ce ne sarebbe
parecchio e chiunque se la senta può fare le sue proposte in merito. E
sì, sarebbe una guerra cretina, ma non mai tanto cretina quanto l’inutile
strage che hanno scatenato l’americano Bush, l’europeo Blair e i loro
amici e sottoposti nei vari continenti.
27 aprile 2003