Sanatori universali

La caccia | Trasmessa il: 11/09/2003



Del terrorismo, a pensarci bene, si potrebbe dire quello che è stato detto, con licenza parlando, del Padre Eterno: che se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Bisognerebbe, s’intende, nell’interesse esclusivo del dibattito politico, che, orbo dell’argomento, incontrerebbe non poche difficoltà a focalizzarsi su qualcosa d’altro.  In Italia, tanto per fare un esempio, con tutti i problemi che ci sono non si parla di altro da almeno trent’anni.  Anche di recente, lo avrete notato, è bastato l’arresto di un certo numero di individui, personaggi inquietanti – certo – e responsabili di azioni nefande, forse (si vedrà al processo), ma certamente incapaci, per livello organizzativo e articolazione del discorso politico, di rappresentare un vero pericolo per le istituzioni, per scatenare una straordinaria canea, con l’obiettivo, ormai tradizionale, di accollare all’opposizione l’unica colpa, quella della radicalità politica, di cui il suo patrimonio genetico è vistosamente privo.  Ma, evidentemente, a certi nostri politici l’occasione è sembrata troppo ghiotta per lasciarla cadere, con i risultati che si sono visti.  Al momento, di fatto, abbiamo di fronte a noi l’allegra prospettiva di manifestare, a breve, tutti uniti, da Fini a Bertinotti, o quasi, contro il pericolo del terrorismo, il che significa ritenere che la minaccia più grave che incombe sul paese non sia la presenza di un governo di destra fondato sugli interessi personali del suo leader e ben deciso a fare a pezzi le regole della democrazia rappresentativa e i diritti acquisiti dei lavoratori, ma una struttura eversiva armata che, a onta delle sue dimensioni minimali, si è deciso di drammatizzare e amplificare.
        Il caso italiano, va detto, non è l’unico.  Questa settimana di terrorismo abbiamo sentito abbondantemente parlare anche altrove.  Uno degli argomenti più comunemente usati per deprecare (chissà perché) gli esiti del noto sondaggio dell’Eurobarometro, quello che rivelava una certa tendenza nei cittadini europei di considerare un pericolo per la pace lo stato d’Israele, che è, tutto sommato, un punto di vista assai ragionevole, perché è difficile essere pacifisti, o semplicemente pacifici, quando si occupano militarmente dei territori altrui, è stato quello per cui chi ha risposto in quel senso non aveva compreso la necessità principe cui deve far fronte Sharon, che è quella, ovviamente, di combattere il terrorismo.  E un altro bel figuro, il presidente Putin, in visita a Roma per il vertice russo europeo, si è affrettato a scrollarsi da dosso con l’abituale cinismo le responsabilità del genocidio in Cecenia spiegando che, in quell’infelice paese, il suo governo è impegnato, guarda un po’, in una dura lotta al terrorismo internazionale.  La tesi, com’è noto, è stata entusiasticamente fatta propria da Berlusconi, e non sarà una combinazione fortuita..
Quello dei ceceni e dei palestinesi, d’altronde, non è l’unico caso di lotta a sfondo etnico e nazionale etichettata dai suoi nemici come una forma di terrorismo.   Sappiamo tutti che qualcosa del genere è già successo, nel breve arco del secolo scorso, agli irlandesi, ai baschi, ai curdi, agli algerini, agli yemeniti, agli armeni e a chissà quante altre rispettabilissime comunità nazionali un po’ riluttanti a sottostare a una logica internazionale che ne negava i legittimi diritti.  È successo persino, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, al movimento sionista, ma chi se ne ricorda, adesso?
        Sembra un po’ strano, comunque, che la stessa definizione derogatoria venga applicata indifferentemente a realtà tanto diverse, quali le forme estreme di lotta politica minoritaria o le attività di una serie di movimenti nazionali, che, quale che sia il giudizio che se ne può dare, sono ben radicati e largamente diffusi nel proprio paese.  Ma questo è precisamente il punto.  Quella di terrorismo, in fondo, non è una categoria politica, nel senso che non è una definizione che qualcuno possa pensare di applicare a se stesso, un termine discutibile, forse, ma dotato di una possibile valenza positiva.  L’ultimo a usare l’espressione in quel senso deve essere stato, se non mi sbaglio, il visconte Louis-Antoine-Leon de Saint Just, e non gli è andata bene.  Di terrorismo, oggi, si accusano esclusivamente gli altri, guardandosi con molta cura dall’analizzare l’eventuale presenza di cause oggettive che giustifichino, o aiutino a comprendere, quella che, in ogni caso, è un’evidente manifestazione di crisi.  Si tratta, insomma, di un’imputazione puramente negativa, di una specie di sanatore universale a uso dei detentori del potere, la cui utilizzazione, più che a descrivere o giudicare il comportamento di qualcun altro, mira a giustificare a contrario il proprio, motivandolo come necessitato dalla altrui nefandezza e riottosità.  In questo senso, finisce immancabilmente con l’essere definito terrorista chiunque, a prescindere dalle sue motivazioni e dai suoi argomenti, si azzardi a mettere in discussione il monopolio statale della violenza.  Finché, naturalmente, non gli capita di vincere (ogni tanto succede) e di essere promosso ipso facto nella categoria degli eroi.
        Che in nome di un fantasma tanto evanescente, di un termine così mal definito, siamo chiamati a manifestare a breve scadenza tutti, in un impeto di unità nazionale che costringerà le forze democratiche a ingoiare i molti rospi che il centro destra gli sta già entusiasticamente ammannendo, è una bella prova di come procede il dibattito democratico nel nostro paese: attraverso una serie di proclami che nascondono, e nemmeno troppo, altrettante intimidazioni e ricatti.  Accettando i quali, naturalmente, si finisce con il cambiare le carte in tavola legittimando, nei fatti, quello che, oggi come oggi, è il vero (e forse unico) progetto eversivo.  Certi sanatori, si sa, funzionano solo per gli altri.

09.11.’03