Del terrorismo, a pensarci bene, si
potrebbe dire quello che è stato detto, con licenza parlando, del Padre
Eterno: che se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Bisognerebbe, s’intende,
nell’interesse esclusivo del dibattito politico, che, orbo dell’argomento,
incontrerebbe non poche difficoltà a focalizzarsi su qualcosa d’altro.
In Italia, tanto per fare un esempio, con tutti i problemi che ci
sono non si parla di altro da almeno trent’anni. Anche di recente,
lo avrete notato, è bastato l’arresto di un certo numero di individui,
personaggi inquietanti – certo – e responsabili di azioni nefande, forse
(si vedrà al processo), ma certamente incapaci, per livello organizzativo
e articolazione del discorso politico, di rappresentare un vero pericolo
per le istituzioni, per scatenare una straordinaria canea, con l’obiettivo,
ormai tradizionale, di accollare all’opposizione l’unica colpa, quella
della radicalità politica, di cui il suo patrimonio genetico è vistosamente
privo. Ma, evidentemente, a certi nostri politici l’occasione è
sembrata troppo ghiotta per lasciarla cadere, con i risultati che si sono
visti. Al momento, di fatto, abbiamo di fronte a noi l’allegra prospettiva
di manifestare, a breve, tutti uniti, da Fini a Bertinotti, o quasi, contro
il pericolo del terrorismo, il che significa ritenere che la minaccia più
grave che incombe sul paese non sia la presenza di un governo di destra
fondato sugli interessi personali del suo leader e ben deciso a fare a
pezzi le regole della democrazia rappresentativa e i diritti acquisiti
dei lavoratori, ma una struttura eversiva armata che, a onta delle sue
dimensioni minimali, si è deciso di drammatizzare e amplificare.
Il
caso italiano, va detto, non è l’unico. Questa settimana di terrorismo
abbiamo sentito abbondantemente parlare anche altrove. Uno degli
argomenti più comunemente usati per deprecare (chissà perché) gli esiti
del noto sondaggio dell’Eurobarometro, quello che rivelava una certa tendenza
nei cittadini europei di considerare un pericolo per la pace lo stato d’Israele,
che è, tutto sommato, un punto di vista assai ragionevole, perché è difficile
essere pacifisti, o semplicemente pacifici, quando si occupano militarmente
dei territori altrui, è stato quello per cui chi ha risposto in quel senso
non aveva compreso la necessità principe cui deve far fronte Sharon, che
è quella, ovviamente, di combattere il terrorismo. E un altro bel
figuro, il presidente Putin, in visita a Roma per il vertice russo europeo,
si è affrettato a scrollarsi da dosso con l’abituale cinismo le responsabilità
del genocidio in Cecenia spiegando che, in quell’infelice paese, il suo
governo è impegnato, guarda un po’, in una dura lotta al terrorismo internazionale.
La tesi, com’è noto, è stata entusiasticamente fatta propria da
Berlusconi, e non sarà una combinazione fortuita..
Quello dei ceceni e dei palestinesi,
d’altronde, non è l’unico caso di lotta a sfondo etnico e nazionale etichettata
dai suoi nemici come una forma di terrorismo. Sappiamo tutti che
qualcosa del genere è già successo, nel breve arco del secolo scorso, agli
irlandesi, ai baschi, ai curdi, agli algerini, agli yemeniti, agli armeni
e a chissà quante altre rispettabilissime comunità nazionali un po’ riluttanti
a sottostare a una logica internazionale che ne negava i legittimi diritti.
È successo persino, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale,
al movimento sionista, ma chi se ne ricorda, adesso?
Sembra
un po’ strano, comunque, che la stessa definizione derogatoria venga applicata
indifferentemente a realtà tanto diverse, quali le forme estreme di lotta
politica minoritaria o le attività di una serie di movimenti nazionali,
che, quale che sia il giudizio che se ne può dare, sono ben radicati e
largamente diffusi nel proprio paese. Ma questo è precisamente il
punto. Quella di terrorismo, in fondo, non è una categoria politica,
nel senso che non è una definizione che qualcuno possa pensare di applicare
a se stesso, un termine discutibile, forse, ma dotato di una possibile
valenza positiva. L’ultimo a usare l’espressione in quel senso
deve essere stato, se non mi sbaglio, il visconte Louis-Antoine-Leon de
Saint Just, e non gli è andata bene. Di terrorismo, oggi, si accusano
esclusivamente gli altri, guardandosi con molta cura dall’analizzare l’eventuale
presenza di cause oggettive che giustifichino, o aiutino a comprendere,
quella che, in ogni caso, è un’evidente manifestazione di crisi. Si
tratta, insomma, di un’imputazione puramente negativa, di una specie di
sanatore universale a uso dei detentori del potere, la cui utilizzazione,
più che a descrivere o giudicare il comportamento di qualcun altro, mira
a giustificare a contrario il proprio, motivandolo come necessitato dalla
altrui nefandezza e riottosità. In questo senso, finisce immancabilmente
con l’essere definito terrorista chiunque, a prescindere dalle sue motivazioni
e dai suoi argomenti, si azzardi a mettere in discussione il monopolio
statale della violenza. Finché, naturalmente, non gli capita di vincere
(ogni tanto succede) e di essere promosso ipso facto nella categoria degli
eroi.
Che
in nome di un fantasma tanto evanescente, di un termine così mal definito,
siamo chiamati a manifestare a breve scadenza tutti, in un impeto di unità
nazionale che costringerà le forze democratiche a ingoiare i molti rospi
che il centro destra gli sta già entusiasticamente ammannendo, è una bella
prova di come procede il dibattito democratico nel nostro paese: attraverso
una serie di proclami che nascondono, e nemmeno troppo, altrettante intimidazioni
e ricatti. Accettando i quali, naturalmente, si finisce con il cambiare
le carte in tavola legittimando, nei fatti, quello che, oggi come oggi,
è il vero (e forse unico) progetto eversivo. Certi sanatori, si sa,
funzionano solo per gli altri.
09.11.’03