Vi ricordate il sindaco di Milano sei
anni fa, all’inizio del suo primo mandato? Era un’autentica iradiddio.
Ringalluzzito dal successo su quel poveruomo di Fumagalli, inebriato
dal consenso popolare – una droga di cui ai vertici della Confindustria
si fa di necessità a meno – non le mandava a dire a nessuno. I suoi
anatemi fioccavano su vigili urbani riottosi, infidi assessori, politici
non abbastanza allineati e presidenti del consiglio comunale un po’ troppo
propensi al fai da te. Bastava il grido fatidico di “O loro o io”
per riportare tutta codesta genia ai più miti consigli che si potessero
immaginare. Certo, il creatore non aveva dotato Albertini di una
voce leonina, non più di quanto lo avesse provvisto di una folta criniera,
ma i suoi ultimatum suonavano lo stesso come ruggiti e producevano, nelle
savane municipalI, lo stesso effetto. E si capiva: il Sindaco, oltre
che su un’ampia maggioranza in Consiglio e sui suoi poteri istitizionali,
poteva contare su un collegamento diretto con il capo in persona. Nella
manifesta incapacità della opposizione di porgli qualsiasi problema, gli
unici fastidi potevano venirgli dal suo stesso campo e quelli bastava una
visitina ad Arcore per vederseli togliere di mezzo con la prontezza del
fulmine e la radicalità di un’amputazione.
Altri
tempi. Nonostante il plebiscito del 2001, Albertini continua a perdere
colpi su colpi. Ha dovuto ingoiare i lazzi di Bossi. Si è battuto
senza successo per più di un anno con la Colli, una donnetta di cui, solo
un paio di anni prima, avrebbe fatto un boccone senza neanche dover andare
in pellegrinaggio in Brianza. Si è rassegnato ad alzarsi all’alba
tutte le domeniche per andare a fare jogging, lui, un uomo che ha qualche
pretesa di distinzione, con quel maniaco salutista di Formigoni.
E quando ha provato a ricordare al boss quella promessuccia solenne di
189 milioni di euro per lo sviluppo della città e delle sue infrastrutture,
si è sentito rispondere senza ma che di soldi per lui non ce n’erano e
la smettesse, per favore, di rompere le scatole. E per dirglielo
non si sono disturbati né il boss in persona né il geniale Tremonti, che,
per rispondere picche alle pressanti richieste del primo cittadino ambrosiano,
si sono limitati a mandare alla Camera il solito Giovanardi.
Ci
è restato male, eh, l’Albertini. Bastava, per capirlo, far caso
al penoso squittio con cui ha risposto ai reporter che su quel rifiuto
preferiva, guarda un po’, non fare commenti. Il ruggito leonino
si era ridotto a una specie di sibilo chioccio che faceva venire in mente,
al massimo, una fuga di gas. Ma che mai avrebbe potuto dire, d’altronde,
il poveraccio? Non si può fare il sindaco a vita. Se si desidera
continuare la propria carriera politica in altra sede (magari a Strasburgo),
bisogna fare i conti con quelli da cui dipende la relativa candidatura.
Bisogna smettere di fare la ruota in solitario e misurarsi con gli
equilibri politici della propria area di riferimento, sapendo che il percorso
è irto di ostacoli, la concorrenza è agguerrita e il capo, per di più,
i ruggiti altrui li gradisce solo fino a un certo punto e a insistere troppo
si rischia di irritarlo, facendogli tirar fuori dal cappello, magari, una
qualche clausola di ineleggibilità. Perché un conto è strapazzare
i tranvieri, un altro difendere gli interessi della città e denunciare
il gioco di chi è troppo occupato a promettere per potere poi mantenere.
Tanto eleggerli li abbiamo già eletti tutti e due e gli unici a rimetterci,
in definitiva, siamo noi.
15.02.’04