Riti falsi e significati veri

La caccia | Trasmessa il: 04/13/2008


    Ci voleva Paul Veyne, il principale storico dell'antichità sulla piazza, per spiegare chiaramente, in un testo pubblicato martedì in prima pagina da “Repubblica”, che tutto il rito della fiaccola olimpica, dall'accensione del “fuoco sacro” nella zona archeologica di Olimpia al suo trasporto, da un tedoforo all'altro, alla città sede dei giochi e alla sua solenne installazione in un braciere monumentale, non ha nulla a che vedere con l'età classica. Diversamente da altri popoli antichi, i greci non annettevano al fuoco un vero e proprio significato rituale e presso di loro le “lampadoforie”, le corse a staffetta con la fiaccola accesa, non erano esattamente ignote, ma avevano una funzione piuttosto marginale. Platone, all'inizio del primo libro della Repubblica, parla di quella, a cavallo, organizzata dai Traci residenti al Pireo – degli extracomunitari, diremmo noi – in onore della loro dea Bendis e dalle sue pagine si capisce benissimo che Socrate e i suoi amici assistevano a quella cerimonia barbarica con una certa malcelata condiscendenza. In tempi moderni, per quanto ne so, il fuoco “olimpico” fu acceso per la prima volta ad Amsterdam nel 1928 e l'idea di farlo partire da Olimpia venne ai tedeschi (che, sin dai tempi del Wilamowitz, si sono sempre considerati molto più greci dei greci) in occasione dei giochi berlinesi del 1936. Questo naturalmente non basta per dire, come intitola il “Manifesto” di qualche giorno fa, che quella cerimonia è stata “reinventata da Hitler”, ma ci fa capire in quale quadro esattamente va inscritta: in quello della propaganda mediatica, della nobilitazione impropria di un evento che ormai ha assunto delle caratteristiche nuove, caratteristiche che, per un motivo o per l'altro, si desidera celare ostentando una apparente fedeltà al modello originale. Le moderne olimpiadi-spettacolo, quali si sono appunto inaugurate a Berlino in quell'anno, con la loro fortissima carica di testimonianza ideologica, comportavano, in qualche modo, il bisogno di esibire un'ascendenza “alta”, il cui richiamo coprisse le connotazioni di bieca propaganda dell'evento, e una cerimonia di tipo vagamente classico, per quanto farlocca, poteva ben servire allo scopo. In seguito, il richiamo alla classicità sarebbe servito a spostare l'attenzione dalle caratteristiche sempre più accentuatamente mercantili che i giochi avrebbero assunto. Niente di nuovo, eh: è in base alla stessa logica, in fondo, che l'edificio che ospita la Borsa di New York era stata costruito nelle forme di un tempio dorico.
    Oggi che la fiamma, se ci crediamo, viaggia in jet, per essere esibita nelle città di mezzo mondo, questo aspetto propagandistico è sempre più evidente. Ma si tratta, come si è visto, di una propaganda a rischio, che offre a qualsiasi possibile dissenziente (a prescindere dai motivi del suo dissenso) delle occasioni di visibilità troppo ghiotte perché le si possano trascurare. Onde gli spettacoli cui abbiamo assistito questa settimana, le zuffe e i tafferugli che hanno segnato il cammino dei tedofori a Londra, Parigi e altrove, e il fatto che ormai detti tedofori, volenti o nolenti, devono rassegnarsi alla scorta di ingenti forze di polizia, cui si aggiungono quei contingenti di giovanottoni cinesi in tuta blu e berretto a visiera, la cui presenza testimonia, come minimo, una certa mancanza di fiducia (nonché una cospicua coda di paglia) nelle autorità di Pechino.
    Paul Veyne conclude il suo breve scritto osservando come “il fatto che i significati che noi attribuiamo alla fiaccola non provengano direttamente dal mondo greco” non significhi “che essi siano meno importanti e nobili.” Verissimo, ma quali che siano i significati che gli organizzatori volevano attribuire alle peripezie del fuoco di Olimpia, noi non possiamo far finta, oggi, che non sia successo niente. Dobbiamo tener conto dei significati comunque espressi da quegli episodi, dalle manifestazioni di protesta, dalla presenza – che tutto fa credere destinata a crescere e a rendersi permanente – di poliziotti in assetto antisommossa e giovanottoni in tuta blu. Sono tutte cose che fanno capire come il tentativo di spacciare una volta di più una rassicurante ideologia olimpica – che so, l'avanzare della fiaccola visto come la diffusione ai quattro angoli del pianeta di un messaggio di pace e fraternità, di cui la rinnovata potenza cinese si porrebbe, in un certo qual modo, come garante – sia, per il momento, fallito. Le proteste dei simpatizzanti per la causa tibetana, in sé abbastanza sacrosante, possono essere viziate da una quantità di motivi (nel senso che servono evidentemente ad altri interessi oltre a quelli degli abitanti della regione), ma il loro esplodere, con il processo a catena che hanno messo in moto, le contraddizioni che hanno scatenato nei governi di mezzo mondo e il conseguente lievitare delle ipotesi di boicottaggio, semi-boicottaggio o presa di distanza, fa capire che, in un certo senso, le Olimpiadi sono già fallite. La Cina non riuscirà a cancellare (o a far passare in secondo piano) le connotazioni di autoritarismo e illiberalità che offuscano la sua immagine e il Comitato Olimpico farà sempre più fatica ad asseverare quell'idea di concordia universale e fratellanza sportiva che sta alla base della costruzione ideologica che ha la funzione di perpetuare a pro degli interessi politici e mercantili della società globalizzata.
    Niente di male, ovviamente, anzi. Tanto più che a rischio di andare in pezzi, a questo punto, è quella specie di patto scelerato, quell'impegno di ipocrisia messo in atto da tutti i governi mondiali quando fu deciso di assegnare alla Cina l'organizzazione dei giochi. Allora, le preoccupazioni per i “diritti umani” furono rapidamente risolte con tre o quattro frasette generiche, nella fiducia che, grazie soprattutto all'efficiente apparato di repressione di quel paese, non se ne sarebbe sentito più parlare. Non è andata così, e per quanto poca simpatia uno possa nutrire per la causa o la figura del Dalai Lama (che, personalmente, fatico un po' a considerare la reincarnazione del bodhisattva Avalokitesvara, e anche se lo fosse non capisco come la cosa possa riguardare le questioni del potere temporale) non si può fare a meno di compiacersene. È verso che da qui ad agosto c'è tutto il tempo perché lorsignori possano rimettere le cose a posto, ma il loro compito, a questo punto, non sarà così facile. È lo stesso sistema di comunicazioni di massa messo a punto per trasmettere ai sudditi le volontà e i valori del potere che ha recepito e ingigantito le proteste, vanificando, almeno in parte, quell'intento.
    Siamo davanti a un tipico caso di serpente che si morde la coda, o, se vogliamo essere più tecnici, di contraddizione tra propositi e risultati: una contraddizione, verrebbe voglia di dire, in seno ai nemici del popolo. E visto che stiamo parlando di Cina può valere la pena di ricordare che fu proprio il Presidente Mao, in un suo celebre scritto del 1937, a indicare nella contraddizione l'elemento base della dialettica della storia. I dirigenti cinesi di oggi continuano a esporre i suoi ritratti, ma, evidentemente, hanno smesso di leggerne le opere.
    Be', tanto peggio per loro.
13.04.'08