Risarcimenti postumi

La caccia | Trasmessa il: 11/14/2004



Faceva un po’ impressione seguire in televisione, tra giovedì e venerdì, le tappe dell’ultimo viaggio di Yassir Arafat verso il mausoleo prigione di Ramallah.  Funerali quasi di stato a Parigi, con la bara avvolta nella bandiera portata a spalle da militari in pennacchio e chepì, un picchetto in alta uniforme a rendere gli onori, una banda militare a suonare la marcia funebre, ministri impettiti a esprimere un improbabile cordoglio.  E poi l’arrivo al Cairo: altri ministri e altri militari in alta uniforme, ancora un picchetto d’onore, ancora una banda…  e i funerali il giorno dopo, in una moschea interna alla scuola per allievi ufficiali (!), di fronte a un pubblico a invito di presidenti, ministri e generali, con ulteriori picchetti e altre bande, fino al tragitto finale sul classico affusto di cannone trainato da sei cavalli neri e all’imbarco, sulle spalle dell’ennesimo gruppo di alti ufficiali in ghingheri e alamari, sull’aereo in partenza per il Sinai.  Un tentativo disperato, e tutto sommato futile, di sequestrare anche da morto il vecchio leader, sigillandone il ricordo e l’immagine in un alone di gloria militare.  Futile, perché nessuno ha potuto impedire al popolo di Ramallah di stringersi poi, con ben altra ritualità e ben altro significato, attorno alle spoglie del suo capo indiscusso.   Ma per provarci, be’, per provarci ci hanno provato.
        Il che può sembrare persino strano, perché Arafat è stato, sì, un grande combattente, ma di militaresco ha sempre avuto ben poco, nonostante quella specie di stazzonata uniforme cachi in cui si infagottava.  Glielo precludeva la sua stessa figura fisica, bassetto e grassoccio qual era, con quell’assurda kefiah che gli stava bene soltanto nelle foto frontali in primo piano, meglio se riprese dalle spalle in su, ma gli sventolava incongruamente di fianco e sulla schiena quando lo inquadravano a figura intera e, comunque, non voleva essere un simbolo militare, ma il ricordo di un’impresa compiuta senza esercito alcuno, l’insurrezione palestinese contro il mandato britannico nel ‘35.   E poi, nessuno ignora che tutte le volte che, nella sua travagliata carriera, ha scelto l’opzione militare, Arafat le ha sempre prese di santa ragione, come ad Amman nel 1970 e nel 1982 a Beirut, e che la sua unica forza – nonostante tutto – consisteva nelle sue capacità di mediazione politica e nel rapporto carismatico che sapeva instaurare con le masse, due competenze che non sono esattamente tra quelle che si insegnano alla scuola di guerra.
        Una celebrazione incongrua, quindi, se non una vera e propria mascherata non priva di aspetti grotteschi.  Ma null’altro, del resto, potevano fare di Arafat i “grandi” del mondo, non dico i nemici che, gioendo della sua morte, hanno fatto solo il loro mestiere, ma i falsi amici e gli alleati infidi, tipo i governanti europei che hanno pilatescamente messo tra parentesi la sua causa o i potentati arabi che non hanno mai smesso di diffidarne. Non potendo, per ora, cancellarlo dalla storia, costoro potevano solo cercare di ricondurne il ricordo nella dimensione istituzionale dei governi e degli eserciti, a rischio dell’assurdo di dover concedere, come si è detto, “gli onori dovuti ai grandi statisti” al leader di un popolo cui si è negato e si continua a negare uno stato.
Non è stata soltanto una specie di risarcimento postumo e neanche una semplice, sia pur gigantesca, manifestazione di ipocrisia.  Il rituale militare, per quanto ridicolo, non è mai inutile: serve, tra l’altro, a normalizzare le anomalie, a partire da quell’anomalia suprema che, in una società che si pretende civile, è sempre la guerra.  Non è strano, quindi, che a esso si sia cercato di ricorrere per esorcizzare solennemente quella che, nel panorama geopolitico dell’ultimo secolo, rappresenta una delle anomalie più scandalose, come l’ostinata volontà di esistere, nonostante tutto, del popolo palestinese.
        Perché il problema, adesso, non consiste, checché abbiano scritto i nostri dotti commentatori, negli errori che Arafat può avere o non avere commesso.  I palestinesi avranno i loro torti, anche se i torti dei popoli oppressi, colonizzati e occupati non possono mai essere messi sullo stesso piano di quelli degli occupanti, dei coloni e degli oppressori.   Il problema è sempre quello, che non si potrà sperare di avere un po’ di pace in quell’angolo cruciale del pianeta  finché non si sarà resa giustizia, in qualche modo, a quella nazione di spossessati e di esuli a casa loro.  Gli eserciti, i governi e le diplomazie finora, non hanno avvicinato di un millimetro la soluzione.   Non c’è che da sperare nella gente normale, quella che alla Muqata si è stretta con tanta disperata emotività attorno alla bara.

14.11.’04