È raro che un uomo di governo resista
alla tentazione di reagire a una catastrofe o a una sciagura imprevista
in altro modo che invocando l’unità del Paese e chiedendo a gran voce
che, in un momento tanto grave, cessino risse e polemiche. È raro
anche perché una simile invocazione, di solito, si sposa all’impegno solenne
di non deflettere di un millimetro dal cammino intrapreso, per cui la “unità”
che nelle emergenze si auspica va sempre intesa come un puro e semplice
allineamento alle posizioni di chi te la chiede e quella di intimare ai
cittadini (o ai sudditi) di smetterla con le chiacchiere e di dichiararsi,
una buona volta, d’accordo con loro è vocazione istintiva di tutti coloro
che, a qualsiasi titolo, esercitino il potere.
Ciò
premesso, e dando pure per scontato che la reazione di Berlusconi e dei
suoi alla tragedia di Nassiriya non sia stata molto più significativa,
sul piano politico e ideale, della salivazione dei cani di Pavlov, spero
vorrete ammettere tutti che il nostro governo ha fatto, anche in questa
drammatica evenienza, una ben trista figura. Non si era mai visto,
credo, che, di fronte alla perdita di tante vite umane, nessuno degli zelatori
della politica che ha esposto al pericolo quei nostri concittadini si esonerasse
con tanta disinvoltura da ogni riflessione sulle proprie responsabilità.
Al ministro Martino, così, il luogo della tragedia è sembrato un
nuovo Ground Zero, come se l’eccidio di un gruppo di civili che, nella
loro città, attendevano alle proprie faccende fosse la stessa cosa dell’attacco
a un reparto armato che, in terra d’altri, partecipava a un’occupazione
militare. Né la differenza si sana sostenendo che gli aggressori,
come ha ipotizzato lo stesso ministro, non siano altro che “barbari che
odiano la civiltà”. Anche quella di liquidare in anticipo i propri
nemici come “barbari” è una vecchia consuetudine retorica (risale, per
lo meno, alla Canzone all’Italia del Petrarca) che non ha mai portato,
nei secoli, nulla di buono.
Il
presupposto di tanta disinvoltura, naturalmente, è quello per cui i “nostri
ragazzi”, come li si è voluti, con rara ipocrisia, definire, non partecipavano
affatto a un’occupazione o, comunque, a un atto di guerra. Erano
lì, lo si è ripetuto all’infinito, in “missione di pace”. Il
che, naturalmente, non è vero, perché i confini tra la pace e la guerra
sono, sì, più sfumati di quanto comunemente si creda, ma una missione armata
a fianco dei vincitori in un paese sconfitto resta, inesorabilmente, quello
che è e nessuna ottimistica speculazione sui fini ne può nascondere la
natura. Ma è appunto questa natura che si è voluto comunque fraintendere,
con tanta pervicacia e – diremmo – con tanta convinzione da far insorgere
il sospetto che i nostri governanti si siano intossicati con la loro stessa
propaganda, che alla retorica che ci vuole sempre e comunque buoni e disinteressati,
la retorica della “brava gente”, della “stessa faccia stessa razza”,
dei soldati che dividono il rancio con i bambini e sono amati e rispettati
dalle popolazioni cui pure impongono la loro presenza, tutte melensaggini
che ci affliggono, come minimo, dai tempi di “Faccetta nera” (o di “Mediterraneo”),
abbiano finito loro stessi per credere. Succede, a volte, ai gruppi
dirigenti troppo sicuri di sé: rileggete, se non ci credete, quello che
Luciano Canfora, nella sua straordinaria biografia di Cesarei scrive sui
discorsi che si facevano al campo di Pompeo alla vigilia di Farsalo.
Allora,
naturalmente, ci pensò Cesare a spazzar via quelle futilità. Noi,
più modestamente, dobbiamo far conto su Prodi, Fassino e D’Alema, che
pure non sembrano, per un verso o per l’altro, schierati su posizioni
altrettanto antitetiche. Eppure da loro ci aspetteremmo soltanto
una reazione appena un po’ meno automatica di quella con cui il Presidente
del Consiglio si è appiattito, come tutta risposta, sulle posizioni di
un alleato padrone che, oltretutto, non si è sprecato più che tanto nel
manifestare la sua solidarietà. Che gli dei ce la mandino buona.
16.11.’03