Ricordi di scuola

La caccia | Trasmessa il: 02/17/2008


    Non sono stato, martedÏ sera, alla grande commemorazione di don Giussani nell'aula magna del liceo Berchet. Non ci sono stato per parecchi motivi: primo, perchÈ ritengo che il personaggio sia gi‡ stato commemorato fin troppo; secondo, perchÈ torno malvolentieri nei luoghi della mia giovinezza, specie in quelli di cui conservo un ricordo importante, e terzo, naturalmente, perchÈ nessuno mi ha invitato. Pure di don Giussani al Berchet sono stato allievo e, visto che, poco prima della laurea, in quel liceo ho fatto un paio di supplenze, persino collega. Ma le nostre storie successive, ovviamente, sono state troppo diverse perchÈ avessi titolo a prendere posto in quei banchi.

    Don Giussani in cattedra, comunque, lo ricordo perfettamente. Era davvero, come dicono tutti, un comunicatore straordinario. Sembrava che parlasse direttamente a ciascuno di noi, che di ciascuno conoscesse il modo di ragionare. In effetti, sebbene con lui, in una settimana, avessimo soltanto un'ora di lezione (di "scuola", diceva), ci conosceva tutti alla perfezione: era aggiornatissimo sulle nostre paranoie, sulle nostre fissazioni sui problemi che ci affliggevano, persino sui nostri flirt. Noi, d'altronde, lo ricambiavamo con un'attenzione che di rado concedevamo agli altri docenti. Quel prete cosÏ peculiare, almeno all'apparenza, ci intrigava tutti. E si capisce: non prospettava l'inferno a ogni piË sospinto, non si soffermava sulla necessit‡ di andare a messa alla domenica e astenersi dal prosciutto di venerdÏ, non istigava le ragazze alla castit‡ e non minacciava ai maschi le conseguenze pi˘ atroci ove avessero ecceduto con la masturbazione. Non sembrava neanche interessato pi˘ che tanto al fatto che solo la DC potesse salvare l'Italia dal comunismo. In aperto contrasto con la pratica della maggior parte dei suoi colleghi, n on parlava di precetti e divieti, ma di valori e per chi percorre il faticoso cammino dai sedici ai diciott'anni si sa che non esiste argomento pi˘ ghiotto.
    Ricordo pi˘ vagamente, invece, i contenuti veri e propri della sua scuola. Non saprei dirvi in base a quali argomentazioni cercasse di persuaderci, come da programma, in prima che era meglio essere credenti che increduli, in seconda che conveniva essere cristiani piuttosto che musulmani o induisti e in terza che, a questo punto, tanto valeva essere cattolici e non protestanti. E forse non lo ricordo perchÈ di queste cose, in realt‡, lui si occupava poco. Tutta la sua attivit‡ e la sua dialettica erano impegnate nello sforzo di presentare l'esperienza del Cristianesimo (lui diceva, mi sembra, "l'incontro con il Cristo") come un'avventura spirituale capace di ribaltare i valori in cui tutti, pi˘ o meno, eravamo cresciuti, e che, come succede a quella et‡, eravamo tutti pi˘ o meno propensi a negare. Aveva capito che ai nostri occhi di figli della piccola e media borghesia, non importava se di estrazione laica o cattolica, il cristianesimo tendeva a confondersi con i valori, appunto, borghesi, si riduceva a un dato istituzionale e normativo che correva il rischio di venire coinvolto nel rifiuto generazionale delle norme e delle istituzioni. Il Sessantotto non era esattamente alle porte, ma le persone accorte (e lui lo era) potevano prevedere fin da allora che un qualche sconvolgimento del genere, prima o poi, sarebbe occorso e sapevano che conveniva prendere da subito i provvedimenti opportuni.
    Per questo non c'era nulla di catechistico nelle sue lezioni. La catechesi, per lui, significava andare dritto al nocciolo del problema esistenziale, giocando su quel bisogno di senso che caratterizza, da sempre, gli adolescenti. Ai suoi uditori adoranti sbatteva in faccia con calcolata violenza verbale una sorta di paradosso pascaliano: se tu cerchi un senso e qualcuno (Qualcuno!) te lo offre, come fai a respingerlo senza metterlo alla prova? E come fai a metterlo alla prova senza accettare il suo messaggio? L'argomento, credo, risale al discorso areopagitico di San Paolo (quello del "dio sconosciuto") e non Ë immune da possibili confutazioni, ma, se sostenuto da una retorica adeguata, puÚ funzionare. E a questo punto, ovviamente, era fatta: visto che quella religiosa Ë una esperienza collettiva, chi voleva approfondire quella tematica trovava gi‡ pronta una struttura ad hoc: i gruppi di discussione dei vari licei (si chiamavano "raggi") e la Giovent˘ Studentesca, la struttura di cui quel sacerdote era, guarda caso, assistente diocesano e che rappresenta, come si sa, il primo nucleo della futura Comunione e Liberazione. In realt‡ don Giussani, nonostante che di lui si sia parlato come di uno "straordinario educatore", non si comportava tanto da insegnante, quanto da agente reclutatore (una cosa che se fatta da altri pulpiti avrebbe comportato l'immediata estromissione dalla cattedra, prima e dopo il Sessantotto). E sÏ, certo, una volta reclutato l'ex alunno si sarebbe trovato a dover fare i conti con le norme, i precetti e i divieti, con l'inferno, la messa alla domenica, la carne al venerdÏ, la verginit‡, la masturbazione e, soprattutto, con la necessit‡ assoluta di votare per Andreotti (la cui corrente, anni dopo, avrebbe trovato nel "Movimento popolare" sponsorizzato da CL appoggio, sostegno e base di massa), ma tutto questo, ormai, non avrebbe avuto pi˘ importanza e, comunque, non sarebbe toccato all'amato Don Gius occuparsene.
    Le vie del Signore, naturalmente, sono infinite, come i percorsi che portano dalla inquietudine giovanile a quel tipo di integrazione che si manifesta nel voto per Andreotti e poi per Formigoni, Berlusconi, Fini, la Mussolini e compagnia bella. Borghesi, certo, eravamo tutti e i pi˘ a quegli esiti sarebbero comunque arrivati (sono comunque arrivati) per conto loro. Ma in quel processo don Giussani agiva come una specie di straordinario catalizzatore, agevolando, con indiscutibile capacit‡ maieutica, quel tipo di trasformazione. Per cui, fermo restando il fatto che ciascuno Ë responsabile delle proprie scelte ed Ë libero di motivarle con gli argomenti che preferisce, un qualche ruolo nella storia ideologica di quegli anni gli va comunque riconosciuto. Ha contribuito anche a lui alla trasformazione del paese vivace e aperto al futuro che era allora l'Italia nella torpida provincia vaticana di oggi. Che questo ruolo vada ricordato mi sembra innegabile; che sia il caso di celebrarlo in forma solenne, un po' meno. Ma era un uomo di grande personalit‡ e di saldissime convinzioni e non mi dispiace del tutto di aver avuto a che fare con lui. Si puÚ imparare qualcosa da tutti: conoscerete anche voi, forse, l'epigramma di quel poeta tedesco per il quale l'aver avuto dei cattivi maestri era stata una buona scuola.

    17.02.'08


    Nota

    Per San Paolo, cfr. Atti, XVII, 23 ss. Il poeta di cui nella conclusione si chiama Arnfrid Anstel e non credo abbia fatto una particolare carriera nelle lettere germaniche contemporanee, ma quei suoi versi, incontrati per caso in una antologia einaudiana, mi avevano colpito abbastanza da farmeli mettere in epigrafe al mio Lettera a una studentessa, 1978.