Ricordando quei due

La caccia | Trasmessa il: 04/22/2007



    Ho cercato invano negli scaffali della mia biblioteca e di quella della casa dei miei genitori i volumi del Mondo piccolo di Giovannino Guareschi. Da ragazzo ne ero appassionatissimo e anche in seguito, nonostante la pessima fama che l’autore aveva a sinistra, mi è capitato di rileggerli con piacere. In effetti, sono abbastanza convinto che nella produzione letteraria dell’Italia postbellica quei racconti meritino una posizione di tutto rispetto e che le varie versioni cinematografiche – quelle che Canale 4 si ostina a mandare in onda a ogni appuntamento elettorale – non rendano l’onore che meritano né all’autore né ai personaggi, a parte l’indiscutibile bravura di Gino Cervi e di Fernandel.

    Questa volta, comunque, la mia curiosità non era di natura puramente letteraria. Sono state le cronache dei congressi dei DS e della Margherita, in vista dell’ormai prossima costituzione di una “casa comune”, che mi hanno spinto a cercare quelle vecchie pagine (che chissà dove si saranno cacciate, tra traslochi e ristrutturazioni) per rinfrescare la mia memoria e le mie impressioni sui personaggi. Con particolare riguardo, naturalmente, ai protagonisti, gli immortali Peppone e Don Camillo, il sindaco rosso e il parroco anticomunista la cui contrapposizione, sul palcoscenico minimale di un paesino agricolo della Bassa Emiliana, mimava quella delle forze politiche nazionali nell’inquieta Italietta di quegli anni lontani. Mi era capitato di chiedermi, vi confesserò, cosa avrebbero pensato quei due della dialettica politica dei nostri giorni e, in particolare, dell’eventualità di trovarsi a militare nello stesso partito. E forse è meglio che quei libri non li abbia trovati, perché, rileggendoli, la prospettiva avrebbe potuto sembrarmi ancora più malinconica di quanto mi sembri oggi.
    Eppure non dovrebbe esserci niente di assurdo nell’idea che Don Camillo e Peppone, specialmente dopo che l’autore li ha promossi, nelle sue opere tarde, alle rispettive dignità di Monsignore e di Senatore della Repubblica, si ritrovino insieme nel Partito Democratico. Ai loro tempi, quando pure se le suonavano di santa ragione – e nel senso più concreto della metafora –, non hanno mai nascosto di provare un profondo rispetto reciproco, forse addirittura qualcosa di più, e gli è capitato più di una volta di collaborare, con maggiore o minore entusiasmo, alla soluzione di qualche guaio imprevisto. Nonostante la rivalità orgogliosamente asserita erano capaci, ciascuno dei due, di comprendere le ragioni dell’altro ed erano entrambi devoti, al di là dell’interesse di parte, a quello generale della loro piccola comunità. E allora perché no? Una volta assimilata e digerita quella che normalmente si definisce come la crisi delle ideologie, non c’è nessun motivo per restare attaccati alle identità che quelle ideologie contribuivano a definire. Tutti assieme, dunque, a maggior gloria del paese (o della nazione), e chi non ci sta dimostra soltanto di essere indissolubilmente legato al passato.
    Ahimè. I nostri ascoltatori sanno benissimo che le ideologie in crisi sono ancora più pericolose di quelle in auge, nel senso che per farle funzionare non c’è alcun bisogno di dichiararle. E in una situazione in cui la politica ha smesso di dichiarare i suoi fini, in cui le intenzioni reali dei soggetti in campo si nascondono dietro formulazioni generiche nella loro fatuità (come quelle, per dire, del “partito democratico”), è lecito avere un minimo di nostalgia per l’Italia di Peppone e di don Camillo. Era un paese malconcio, appena uscito da una guerra rovinosa, diviso tra chi sosteneva un governo autoritario e abbastanza oscurantista e i fautori di un’opposizione alquanto truculenta, un paese povero (anche nella prospera Padania di Guareschi c’era chi, per mangiare, doveva aspettare i pacchi del piano Marshall), in cui la struttura dello stato era ancora quella ereditata dal fascismo e il controllo della Chiesa sul territorio, tra Madonne Pellegrine e Comitati Civici, tendeva a essere totale, ma era – in compenso – un paese in cui la lotta politica rispecchiava un quadro valori esplicito, in cui le due parti si proponevano, con maggiore o minore chiarezza, una visione del mondo e lottavano per realizzarla. Un mondo orientato su grandi idee, in cui il sindaco e il parroco non dimenticavano mai la prospettiva in cui erano collocati e le loro occasionali intese e collaborazioni si motivavano con il fatto che erano tutti e due abbastanza intelligenti da rendersi conto che, a volte, la logica delle circostanze prevale su quella degli individui, oltre che dalla necessità del loro autore di variare, ogni tanto, la trama delle sue storie. Lo schema era rigido, è vero, ma era anche rigoroso e basta questo (forse) a farci chiedere se non fosse preferibile, in un certo senso, alla vischiosità informe in cui siamo tuffati.
    Oh dio, questo non significa rimpiangere le identità politiche che vanno oggi a confondersi, non foss’altro perché hanno perso da tempo le caratterizzazioni che ne giustificavano l’esistenza. Oggi siamo (saremo) tutti democratici: un termine che, a pensarci, non vuole dir niente, che ha esaurito nella storia qualsiasi valore semantico, tanto è vero che tutti, ma proprio tutti, lo possono fare proprio senza controindicazioni. Potremmo considerarlo una specie di variante politica della notte nera di Hegel, quella in cui tutte le vacche sono nere, ma naturalmente non c’è niente in comune tra il machiavellismo buonista dei vari D’Alema e Veltroni e l’Assoluto di Schelling, per cui sarà meglio lasciare perdere. Diciamo piuttosto che si apprestano a propinarci la solita minestrina riscaldata e speriamo che ci faccia buon pro.

    22.04.’07