Ricicli concettuali

La caccia | Trasmessa il: 01/22/2012


    Ricicli concettuali

    Non so se diffidate anche voi del vasto consenso – una quasi unanimità, in effetti – formatosi in questi giorni, con qualche insignificante eccezione, a proposito delle responsabilità relative all'assurdo naufragio dell'Isola del Giglio. Opinione pubblica, giornalisti, conduttori televisivi, magistrati, armatori, pezzi grossi della Guardia Costiera, passeggeri superstiti e membri dell'equipaggio hanno fatto a gara nel gettare la croce sull'ufficiale comandante e nel farne l'unico colpevole del disastro. Ora, è vero che il capitano Schettino, nella circostanza, non ha fatto una gran figura per non dire che chi ricopre il suo ruolo di disastri del genere è responsabile, per così dire, d'ufficio, né a me risultano elementi particolari atti a mettere in discussione la versione corrente (salvo il fatto che di fronte a simili levate di scudi provo sempre l'impulso incoercibile di dire che no, non può essere vero), ma ammetterete nanche voi che suona, come minimo, strano che l'errore di un solo individuo possa provocare una catastrofe del genere: un naufragio a poche centinaia di metri dal porto, con il mare calmo e in acque ben conosciute, se è vero che quella crociera passava dalle parti del Giglio una volta alla settimana. L'errore umano è un fattore di cui bisogna tener sempre conto, ma di solito non nasce dal nulla: si spiega in un contesto che va evidenziato e che spesso quanti lo adducono a spiegazione non hanno nessuna voglia di evidenziare.
    Prendiamo il businness delle crociere, per esempio. Non c'è dubbio che quelle gigantesche navi bianche, alte come un palazzo di quindici piani, che solcano maestosamente le acque ed entrano orgogliose nei porti ostentando le loro molteplici meraviglie tecnologiche, rappresentano uno degli spettacoli più affascinanti che si possano vedere in mare. D'altro canto... d'altro conto non pensate anche voi che ci sia qualcosa di anomalo, di inquietante, in una nave capace di quattromiladuecento passeggeri e milletrecento uomini d'equipaggio, una sventola di tredici ponti utilizzata non tanto per sfidare gli oceani quanto per portare a zonzo i suoi passeggeri in escursioni nauticamente insignificanti? È, quella di natanti siffatti, la cui introduzione (in età abbastanza recente) ha segnato una brusca frattura nelle forme e nelle consuetudini della tradizione marinara, una forma di gigantismo che ricorda non poco quella dei dinosauri. Che erano, naturalmente, dei bestioni possenti, ma tutti sappiamo che fine hanno fatto.
    Questo, tuttavia, è un parallelismo banale. Il vero problema non è tanto di dimensioni, quanto di funzioni. Le navi sono dei mezzi di trsaporto. Sono state inventate per portare la gente da un posto all'altro, e in questa funzione hanno accompagnato la storia dell'umanità, rendendone possibile la diffusione sul pianeta e aiutando a tenerne unite le membra disperse oltre i mari e gli oceani. Poi, il progresso tecnico, da un momento all'altro, ha reso desueto questo nobile ruolo. Oggi che l'aviazione civile ha soppiantato la navigazione di linea, la gente viaggia in aereo e le navi servono per le merci e a pochi altri servizi specializzati: i collegamenti con le piccole isole senza aeroporto, il traghetto degli autoveicoli su certe tratte turistiche o commerciali e – appunto – le crociere. Le quali conducono, sì, i loro passeggeri da un porto all'altro in viaggio – come si dice – di piacere, ma rispetto alla marineria di una volta rappresentano una realtà, per così dire, residuale, qualcosa di molto diverso . L'accento, ormai, si è spostato dal viaggio sul soggiorno: ai turisti imbarcati non viene prospettata una visita alle località toccate dalla rotta e al loro entroterra, ma un soggiorno a bordo piacevole, variato e organizzato, articolato tra bar, ristoranti, palestre, piscine, locali, discoteche, sale da gioco e saloni di bellezza, allietato da musiche e spettacoli, da una cucina ad alto livello, e da servizi alberghieri di lusso. Sì, certo, da qualche parte si va, e all'arrivo si scende anche a terra, ma per un mordi e fuggi la cui superficialità dimostra lo scarso interesse che gli si annette. In realtà, per godersi la crociera nel modo migliore, basterebbe fare a meno di uscire del tutto dal porto: si eviterebbero così, oltre che i rischi di naufragio e le insidie dei pirati somali, quei disturbi di beccheggio e di rollio che la moderna ingegneria navale non è ancora riuscita a eliminare del tutto. E non è detto che, presto o tardi, non ci si arrivi.
    Insomma, da mezzo di trasporto le navi sono diventate ambiti di soggiorno e di svago. Sono state, in un certo senso, riciclate, come le fabbriche dismesse trasformate in palazzi di appartamenti o le fortezze militari ridotte a ospitare musei d'arte o giardini d'infanzia. Il procedimento è abbastanza comune, oggi come oggi, anche se comporta qualche inevitabile goffaggine: c'è sempre qualcosa di strano nelle unità di abitazione (nei loft, si dice) ricavate da una fonderia o nelle gallerie fotografiche ospitate nei camminamenti di guardia: l'occhio esercitato scopre subito eccessi o difetti nell'organizzazione spaziale, limitazioni o ridondanze formali di vario tipo e si capisce subito che le funzioni per cui erano stati concepiti gli ambienti non erano quelle per cui li si utilizzano oggi, il che, nonostante ogni possibile ingegnosità dell'adattamento, un po' sempre stride. Ed è ovvio, come è altrettanto ovvio che un viale progettato per farci passare delle carrozze mal regga al traffico delle automobili e diventi decisamente incongruo quando, dotandolo di fioriere, violinisti, fontane e altre amenità, se ne vuol fare un'area pedonale.
    Le navi da crociera, ovviamente, non sono ex transatlantici riadattati: sono costruite ex novo, rappresentano – se mi permettete l'ipotesi – un riciclo in via puramente concettuale, perché li si è ottenuti impiantando sulle linee e sulle strutture del mezzo tradizionale – scafo, ponti, cabine e quant'altro – una superfetazione di oggetti e di ambienti che con la navigazione non hanno nulla a che fare e, anzi, tendono maledettamente a complicarla. Tutti quei ponti, dovuti esclusivamente alla necessità di avere quante più possibile cabine con vista mare e quanti più spazi per le attività ricreative all'aperto (comprese, mi dicono, le pareti attrezzate per il free climbing), rendono il tutto più simile a un'arca semovente, a uno zigurratt fluttuante sulle onde, che a una nave in senso stretto. E infatti oggetti del genere, nonostante le infinite agevolazioni offerte dalla strumentazione elettronica, sono difficili da governare, anche perché, tra le migliaia di membri dell'equipaggio, pochissimi sono adibiti alla bisogna, dovendo gli altri soprattutto badare alle necessità dei passeggeri, senza naturalmente, come si è visto, che tra le loro competenze ci sia quella di assisterli in caso di naufragio. La loro presenza in mare è incongrua e mal tollerata, non soltanto per la quantità di inquinanti che rilasciano, ma perché è fatale che bestioni del genere si muovano tra porti e spiagge, scogli e coralli, con la goffaggine del tradizionale elefante nella cristalleria, solo che gli scogli, come si è visto, non sono cristalli e ad andare in frantumi in caso di impatto non sono loro.
    Non c'è niente di male, naturalmente, nel desiderare, per i propri periodi di relax, gli agi e gli accudimenti tipici della vita a bordo di una grossa nave da crociera. Sono gli stessi offerti in qualsiasi villaggio turistico e, chi gli piace, non si vede perché non dovrebbe permetterseli. Ma si potrebbe discutere sull'opportunità di organizzare questo tipo di villaggi turistici galleggianti, questi dinosauri marini capaci di subire o provocare le più inopinate catastrofi. Come succede un po' per tutti gli oggetti riciclati, la loro affidabilità non è mai totale e la loro fragilità non è puramente ideologica. Nell'aleatorietà del loro rapporto con l'ambiente, basta un imprevisto qualsiasi, una classica complicazione atmosferica o l'ancora più classico errore umano, a scatenare il patatrac. Poi ha voglia di stracciarti le vesti e di dire che la colpa è tutta del comandante che – vergogna a lui – ha abbandonato la nave. Quella di non abbandonare la nave è una norma del codice della marineria, ma abbiamo visto che la marineria con questi oggetti ha davvero poco a che fare. A finte navi si addicono finti codici e finti capitani.
22.01.'12