Residui elettorali

La caccia | Trasmessa il: 05/20/2001



Credo di avervi già citato, in qualche remota occasione elettorale, quel bel racconto di Isaac Asimov (almeno, mi sembra proprio di ricordare che sia di Isaac Asimov, ma potrei sbagliarmi) che all’Election Day appunto si intitola.  Risale, mi sembra, agli anni ’60 o ’70 e sviluppa, come forse ricorderete, l’ipotesi che, in un futuro dato come imminente, le tecniche di proiezione ed estrapolazione delle intenzioni di voto – i “sondaggi”, insomma –  abbiano raggiunto un livello tale da far sì che sia sufficiente, per assegnare il risultato, il voto effettivo di un singolo elettore estratto a sorte: di quel fortunato rappresentante del popolo descrive appunto, con spirito caustico, la giornata elettorale.   È un racconto molto divertente, nonché uno dei rari casi in cui la fantascienza sia riuscita a individuare e descrivere con una certa precisione una tendenza effettivamente operante nelle dinamiche sociali.   Ma credo converrete anche voi che nemmeno Asimov, in uno dei voli più sfrenati della sua fantasia, sarebbe riuscito a prevedere una situazione come quella cui tutti abbiamo assistito domenica scorsa, quando i risultati nazionali erano già stati annunciati e venivano furiosamente discussi in sede televisiva, mentre ancora gli elettori si accalcavano in lunghe file fuori dai seggi.  Avrete letto anche voi, suppongo, come l’ultimo cittadino che sia riuscito a esprimere un voto lo ha fatto verso le cinque del mattino del lunedì, quando ormai tutti i candidati, vincitori o sconfitti che fossero, se n’erano già andati tranquillamente a letto, sicuri del risultato proprio e altrui.
        L’episodio è sembrato paradossale, nel senso che, in base alla logica democratica e a quello che Hugo Dingler chiamava il “principio dell’ordine pragmatico”, prima bisognerebbe votare e poi contare i voti: in fondo, nemmeno il singolo elettore di Asimov conosceva, prima di entrare in cabina, il risultato della competizione in cui aveva tanto larga parte.  Molti, poi, lo hanno visto come un esempio lampante di inettitudine amministrativa e i commentatori non hanno mancato di sottolineare le responsabilità di chi ha organizzato le operazioni elettorali e quelle, in particolare, del ministro Bianco.  Ma visto che denunciare l’inettitudine di quel ministro, che con il voto di domenica ha concluso, comunque, la sua carriera, è come sparare sulla Croce Rossa, nessuno si è particolarmente sprecato sull’argomento.  Come nessuno ha avuto il coraggio di far notare come tutta la procedura abbia rappresentato un caso, patente se mai ve ne fu uno, di violazione della legge in vigore, il che non dovrebbe – in un paese serio – restare privo di conseguenze.  Ma sulla serietà di questo paese, ovviamente, abbiamo tutti delle opinioni abbastanza precise.
        Queste, naturalmente, sono banalità, anche se, altrettanto naturalmente, il fatto che siano tali non dovrebbe autorizzare nessuno a far finta di niente.  Il vero problema è che, a pensarci bene, si potrebbe anche concludere che tutta la storia non ha avuto, in sé, proprio niente di paradossale.  Che una campagna elettorale che si è svolta esclusivamente in forma mediatica, in cui i cittadini sono stati coinvolti soltanto nella loro qualità di spettatori televisivi, in cui i (rari) dibattiti sono stati orchestrati e valutati in termini di audience e i candidati si sono battuti soprattutto su quel piano, si sia conclusa con uno scrutinio puramente mediatico virtuale non dovrebbe stupire nessuno.   Ben lungi dall’essere individuati in base alle loro particolarità individuali e sociali, alla loro caratterizzazione personale e di classe, gli elettori erano già stati omologati di forza in quanto semplici fruitori di programmi e detentori di telecomando.   È fin troppo ovvio che in questa situazione il medium abbia imposto i propri specifici valori su quelli che avrebbe dovuto veicolare, che abbia affermato se stesso, come unico protagonista politico, in una situazione in cui, a rigor di logica e a norma di legge, avrebbe dovuto soltanto tacere.   Nella società dello spettacolo, il singolo cittadino, specialmente quando compie un gesto così poco spettacolare come quello di deporre nell’urna le molteplici schede di cui è stato dotato, non ha uno spazio particolare: la sua stessa esistenza, in effetti, rappresenta un residuo fastidioso, un’anomalia che si può e si deve ignorare.


Sappiamo tutti che questa situazione è stata necessitata, in un certo senso, dallo strapotere mediatico di uno dei contendenti.  Ma se Berlusconi è riuscito a imporre come terreno di confronto quello su cui era in vantaggio fin dall’inizio, ci sarà ben un motivo.   Molti esponenti della sinistra (quelli, almeno, che non erano troppo impegnati ad autogratificarsi giocando coi numeri o ad attribuirsi l’un l’altro la colpa della sconfitta) hanno affermato, in questi ultimi giorni, che la vittoria della destra è soprattutto pericolosa sul piano dell’egemonia culturale e dei valori riconosciuti.  Verissimo, naturalmente, ma il guaio è che su quel piano non c’è stata partita.  In termini di subordinazione al mercato, di mercificazione dei servizi sociali, di sottomissione passiva agli interessi forti sul piano internazionale (quella che adesso si chiama “globalizzazione”) ben poco ci si è voluti, o potuti, distinguere.   Persino sui temi classici dei diritti civili, della libertà di pensiero, di ricerca e di informazione, della laicità dello stato e dell’uguaglianza dei soggetti di fronte alla legge, il centrosinistra è stata tanto timido da non incoraggiare proprio nessun entusiasmo.  In questi anni abbiamo visto dilagare indisturbata in tutti i settori sociali a cultura dell’individualismo, intendendo con questo termine non certo l’individualismo che del singolo difende i diritti di libertà, ma quella sua versione contraddittoria che più di ogni altra dote apprezza la capacità di imporsi sugli altri, come a dire, oggi, la disponibilità monetaria.  Opporre alla strapotenza del mercato e del quattrino una maldefinita esigenza di “solidarietà” o di “concertazione”, senza nemmeno provare di far saltare il quadro ideologico del liberismo estremo, è altrettanto futile della pretesa di dare di quel liberismo una versione “compassionevole”.
Ora, visto che è proprio con queste futilità che ci si è baloccati a lungo e che in qualcosa, quando si arriva al dunque, bisogna ben cercare di differenziarsi, era inevitabile che si andasse allo scontro sul puro piano dell’immagine.  Tutti hanno detto, dopo il 13 maggio, che il buon Rutelli non è stato un cattivo candidato, che, anzi, ha fatto dei veri prodigi e si  conquistato sul campo i galloni di leader dell’Ulivo e di coordinatore principe dell’opposizione.  Sarà vero, anche se, personalmente, avrei qualche dubbio.  Ma il fatto che il poveraccio abbia dovuto guadagnarsi sul campo dei galloni che già gli erano stati conferiti, porrà bene il problema dei criteri con cui, a suo tempo, lo avevano designato.  E nessuno ci toglierà dalla testa l’idea che l’abile Berlusconi, con il semplice espediente di opporre un netto rifiuto alla proposta di uno scontro televisivo diretto, abbia vanificato almeno al settantacinque per cento l’astutissima strategia dello schieramento avversario.   Perché quanto a immagine l’uomo di Arcore poteva o vincere o perdere, ma su tutto il resto, non foss’altro che per mancanza di proposte alternative, era sicuro di vincere lui.   Come, infatti, è regolarmente avvenuto.


Permettetemi, infine, un’osservazione più terra terra.  Da un ceto politico deficitario sul piano dei valori e perdente su quello dell’immagine, ci si sentirebbe autorizzati a pretendere, se non altro, una certa capacità tecnica: niente di straordinario, certo, ma almeno quel tanto di conoscenza dei meccanismi istituzionali necessario per muoversi, disponendo di risorse così scarse, su un terreno tanto infido.  Bene: non so cosa ne pensiate voi, ma a me non è sembrato esattamente che, su questo piano, la nostra sinistra abbia dato il meglio di sé.
        Lasciamo pure perdere la campagna elettorale, che tanto ormai è passata ed è inutile farcisi sangue cattivo.  Ma pensate, per favore, al dopoelezioni immediato: a tutti quei begli spiriti che sono venuti a dirci che in fondo non era andata così male, perché, a prescindere dal fatto che la colpa era tutta di Bertinotti, i voti dell’Ulivo, sommati, beninteso, a quelli di Bertinotti, non erano tanti di meno, o forse erano persino un poco di più, di quelli toccati al cavaliere e ai suoi alleati.  E che da questa affermazione sembravano trarre, se non proprio soddisfazione e incoraggiamento, un certo conforto.
        Ecco: io non vedo proprio cosa ci sia di così confortante nell’idea di aver subito una batosta storica, che permetterà agli avversari di governare belli tranquilli per cinque anni filati, pur disponendo di un patrimonio di consensi pari o appena inferiore al loro.  Mi sembra, anzi, che ci sarebbe da arrabbiarcisi ancora di più, nel senso che di fronte a una sconfitta dovuta a inferiorità manifesta posso anche rassegnarmi, ripromettendomi di darmi da fare per cambiare le cose in futuro, ma se sono convinto che quell’inferiorità proprio non c’era, dovrò ben chiedermi come mai mi sono lasciato suonare a tamburo.  Chi le prende da un avversario che non è, in fondo, molto più forte di lui, deve segnare al passivo, oltre che il danno, le beffe.
        Mi direte che la colpa è tutta della legge elettorale.  Ma è questo il punto: è questo sistema elettorale maggioritario che la sinistra, appiattendosi a pelle di fico sulle posizioni dei vari Segni e Pannella, ha a suo tempo voluto, che ha difeso con determinazione nonostante che gli italiani, con un paio di referendum, abbiano dato segno di non esserne poi tanto entusiasti, che non ha voluto cambiare, pur avendo i numeri per farlo, negli ultimi cinque anni e che ha graziosamente consegnato a una destra che, visto l’utile che ne ha tratto, non avrà certo una gran fretta di togliercelo dal groppone.  Non è stato tanto per colpa di Bertinotti, che le sue responsabilità le avrà avute di certo, ma non più di tanti altri, quanto per via della logica del maggioritario se la sinistra non ha potuto far valere i consensi che, miracolosamente, era riuscita a conservare.
        Certo, chi ha voluto la bicicletta non può far altro che pedalare.  Il guaio è che questo particolare modello di bicicletta lo hanno voluto loro, ma a pedalare, come al solito, saremo noi.  Per cinque anni, senza condizionale.

C. Oliva, 20.05.’01